La forza di lottare tra cancro e covid: intervista ad Augusta Castellano

C’è chi è in quarantena da cinquanta giorni e chi da anni; c’è chi si lamenta dei presidi sanitari necessari per prevenire il contagio e chi li benedice a causa della propria immunodepressione; c’è chi non vede l’ora che venga posta fine al proprio malessere fisico e psicologico causato dal lockdown e chi, invece, è e continuerà ad essere quotidianamente messo con le spalle al muro da una malattia che attacca sia il corpo che la mente.

Si parla dei malati di cancro, persone di norma già altamente esposte a rischi elevati per la propria salute che, in tempi di covid-19, sono costrette ad affrontare misure ancora più stringenti, pericoli esponenzialmente maggiori e paure potenzialmente più logoranti.

A parlarci ma, soprattutto, a guidarci tutti sulla materia (nessuno escluso) è Augusta Castellano, venticinquenne calabrese stanziata a Milano e fresca di laurea magistrale in filosofia, rigorosamente conseguita in streaming aspettando l’esame istologico che, tuttavia, sapeva già avrebbe confermato una recidiva del suo linfoma di Hodgkin.

Ti ringraziamo moltissimo per aver scelto di aprirti con noi. Puoi raccontarci un po’ la tua esperienza, soprattutto oggi alla luce del coronavirus?

Ho conosciuto il mio inquilino, un linfoma di Hodgkin al penultimo stadio, due anni fa. Era metà settembre 2018, ricordo il caldo e la paura di mia madre per quella febbre serale che non voleva passare. Quando mi costrinse a fare un emocromo e altri esami di routine mi chiusi in bagno: in un certo senso sapevo già che cosa avessi, ma quando sei lì lì per consegnare la tesi e hai 23 anni ti costringi a credere che non sia possibile, che i tumori capitino agli altri. Poi scopri di essere tu quel cosiddetto ‘altro’ e ti crolla il mondo addosso. Ho consumato tutte le mie lacrime in 48 ore. Da allora piango pochissimo – per lo più guardando video di scimmiette che socializzano con esseri umani.

Dopo le cure, inclusa la radioterapia, mi sono ritrovata a fine luglio 2019 pulita e così è stato anche ai controlli di ottobre dello stesso anno. Sette mesi dopo, però, il mio linfoma è tornato. Soltanto sette mesi, che non voglio definire una rarità, ma è comunque una cosa piuttosto strana. E quindi eccomi qui, in tempi di covid, con una neoplasia che colpisce il sistema immunitario e prossima ad un trapianto autologo di cellule staminali, che è una procedura medica che prevede il prelievo e reimpianto delle tue stesse cellule staminali. Lì inizierà la mia quarantena vera. Perché quella è una quarantena vera.

In che modo e fino a che punto il linfoma ha trasformato la tua vita e ancora di più te?

Mi sono concentrata sull’aspetto positivo della malattia, dove con “positivo” non intendo ovviamente la malattia: non è un dono. E sì, ci sono dolori, medicine, punture che devi imparare a fare anche da sola. In questo senso la tua vita cambia in negativo. La positività è però nel modo in cui il linfoma ha stravolto la mia prospettiva e visione del mondo. Per quanto possa sembrare banale, ho capito l’importanza di una cosa che fino a due anni fa davo per scontata: la mia esistenza.

Quando ti dicono che ti manca poco per andartene all’altro mondo, fidati, ti attacchi alla scialuppa della medicina con le unghie e con i denti. È stato il mio sì alla vita. Ho conosciuto la mia ematologa, la donna più figa che conosca! Lei è stata, insieme a mia madre, la mia forza nei momenti in cui volevo mandare a quel paese tutto. Perché ci sono quei momenti. Ma passano: passano i tumori, non vedo perché non possa passare una più che giustificabile per non dire fisiologica disperazione. L’unica cosa è cercare di non lasciare che abbia il sopravvento.

E poi, quando sei attaccata a delle flebo e una donna che di lavoro fa la cameriera ti racconta del suo secondo cancro e della figlia tossicodipendente che vive in comunità, capisci che gli psicodrammi è meglio lasciarli alle serie TV su Netflix. La vita è amara, ti prostra. Ma ne vale sempre la pena.

Basta quanto stai dicendo per percepire quanto tu sia meravigliosamente ostinata a non buttarti giù. Se ti trovassi invece di fronte a persone che stanno affrontando la tua stessa situazione ma che non sono in grado di avere la tua stessa forza d’animo, cosa gli diresti?

A chi nella mia situazione si sente tremare la terra sotto i piedi dico che è normale avere paura. Bisogna avere pazienza con sé stessi e fiducia nei propri medici. Non siete soli, anzi invito chi ne ha bisogno a contattarmi. Certo, la forza non la si trova negli altri, ma in sé stessi. Quando si è faccia a faccia con la morte, presto o tardi la forza la trovi; ed è quella, insieme alla ricerca, a far fuori le blatte che ti infestano. Ma parlare con chi può capirci sul prurito della chemioterapia e sul fastidio del catetere venoso centrale può essere d’aiuto. Con questo non voglio dire che il mio modo di affrontare la malattia sia quello giusto, ma che l’importante è affrontarla.

Per esempio, c’è una signora che ha avuto il mio stesso linfoma e adesso per fortuna sta bene, ha una meravigliosa bambina di otto anni. Il primo giorno di terapia era disperata. Ora, io parlo con le persone, perché amo il contatto umano con chi puoi capire e può capirti e soprattutto con chi si vede che ha tanta paura. Perciò le ho rivolto la parola e mi ha detto che aveva il mio stesso tipo di tumore. Le ho preso la mano (non si può fare, ma l’ho fatto lo stesso) e le ho detto “andiamo insieme”.

La terapia durava un’ora e mezza e noi due abbiamo parlato per tutto il tempo: quando avevamo quasi finito non poteva crederci. Da lì, nonostante la paura fisiologica le sia rimasta, è riuscita ad affrontare tutta la terapia e adesso sta bene. La forza viene da dentro e se puoi aiutare qualcuno a stare meglio, perché non farlo?

È corretto quindi dire che tu trai forza dal dare forza agli altri?

Assolutamente sì. Aiutare ti aiuta, sempre. È come la social catena di Leopardi: bisogna restare uniti in questi momenti di difficoltà, perché siamo tutti nella stessa situazione. È bello aiutarsi, confrontarsi e, una volta finito, se anche tu stai affrontando quel percorso, poterti dire che se ce l’ho fatta io, ce la puoi fare anche tu, perché non sono più speciale di te.

Quali sono i suggerimenti che vorresti dare ai parenti e agli amici dei malati di cancro in generale e, soprattutto, di questi tempi, su ciò che è bene non dicano?

Evitate di trattarci come delle bambole di porcellana che si possono rompere da un momento all’altro. Non siamo bambole. Siamo fatti di carne, anche se la nostra carne cerca di ucciderci. La neutropenia e i dolori vari ed eventuali ci sono, ma la vita va avanti e se un giorno (quarantena permettendo) ci andrà di uscire a prendere una birra con gli amici ed il medico ci darà il placet, non ci sarà madre apprensiva che tenga: abbiamo il diritto di divertirci e di brindare a noi stessi.

La nostra quotidianità, per quanto possa sembrare difficile, deve essere preservata il più possibile, altrimenti arriva la disperazione – il tipo da cui non se ne esce più. Magari c’è chi ha bisogno di essere maggiormente coccolato o chi è più introverso; ma non dimenticate che è sempre solo il malato a scegliere cosa voglia o non voglia da voi. Banalmente, ad esempio, non portatelo a parlarvi se non gli va.

E agli sconosciuti cosa chiederesti di non dire?

Ci sono due discorsi paralleli. Una cosa che odio sono i messaggi di circostanza degli sconosciuti o affini perché “devo scriverle, poverina”. No, vi prego: gli ipocriti a dieci chilometri di distanza e tante grazie. C’è uno stigma, uno stigma positivo in un certo senso, perché ci osannano e martirizzano, ma un tumore non sostituisce quello che siamo. Non voglio che qualcuno cambi opinione su di me, ad esempio, soltanto perché sono malata.

La compassione ed il pietismo sterile non hanno mai salvato la vita a nessuno. Non sono una santa, né una martire, sono solo Augusta. Quella di sempre, solo con più cicatrici e tubi che le escono un po’ dappertutto. Se fino a due anni fa ti stavo antipatica, non contattarmi solo perché sono malata: non ci siamo confrontati e non ti ho fatto cambiare idea sulla mia persona. Il malato di HIV non è l’HIV, il malato di cancro non è il suo cancro. Siamo persone malate e le persone malate si curano, punto.

Al contempo, però, mi è capitato di ricevere uno dei messaggi più belli di sempre da una ragazza che non conoscevo affatto. Si riconosceva nella mia storia e mi ringraziava per la forza che dimostravo. Aveva avuto un problema diverso dal mio: il suo ex fidanzato la maltrattava in casa. Finiva spesso in ospedale, aveva smesso di vivere la sua vita. Ha sentito più volte l’odore della morte, che come ha sottolineato lei, ha un odore tutto suo. Capisci bene che si è ammalata per altri motivi. Quel messaggio da una totale sconosciuta che mi vedeva sui social è stato bello. Lì ho sentito la vera vicinanza di un estraneo. C’è una differenza tra il messaggio di circostanza, che è un messaggio standardizzato, ed un messaggio che ti invia una persona perché è rimasta veramente colpita da quello che racconti anche in maniera goliardica e satirica come faccio io.

Perciò, se ti va di scrivermi perché lo senti, perché in quel momento ti senti colpito da quella storia di vita, allora ha un senso, un valore, e io che sono dall’altro lato me ne rendo conto. Fai un passo indietro e chiediti: lo stai facendo per ripulirti la coscienza o perché per te ha valore la mia esperienza?

Il tuo ieri, il tuo oggi, il tuo domani: da quale trai più forza e quale ti spaventa di più?

La cosa che mi faceva più paura inizialmente era il futuro, perché lo vedevo incerto e quando scopri di avere la malattia ti crolla il mondo addosso. Non riesci ad immaginare come possa essere il tuo futuro o addirittura se ci sarà. Adesso, invece, mi spaventa di più l’Augusta del passato. Ho paura di poter ritornare a vecchie dinamiche in cui tendevo ad isolarmi, a non dare valore alla mia vita come ho invece imparato a fare adesso… erano dinamiche logoranti.

Il mio domani ora lo immagino in modo positivo perché spero di pubblicare il mio romanzo e darmi alla ricerca. Mi piace pensare che io e Paolo, un ragazzino di tredici anni con un cancro terrificante al cervello, abbiamo iniziato a sperare nel domani nello stesso giorno. Proprio quel giorno gli ho chiesto cosa volesse fare da grande. “L’ingegnere, ma non so se…”. L’ho interrotto con lo sguardo e gli ho detto che sarà un ingegnere bravissimo. Sentiremo parlare di Paolo e lo riconoscerete dalle lentiggini sul naso e dai capelli rossi, perché quelli ricresceranno. Ricrescono sempre.

E se Paolo può affrontare a tredici anni, da quando ne aveva undici, terapie come quelle per la cura di un tumore al cervello, non lamentiamoci per cinquanta giorni di quarantena.
C’è tanta gente che vorrebbe vivere e vivrebbe volentieri in quarantena per tutta la vita.