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Rosso di passione, rosso di sangue

Vitriolage, revenge porn, femminicidio sono solo alcune delle forme manifeste che portano in germe un male che è comune ad ogni forma di disamore.  Gli atti di violenza non risparmiano il sesso tradizionalmente contraddistinto come forte ma la cosiddetta  “lotta alla violenza di genere” nasce come esigenza di risposta ad una serie di episodi perpetrati nei confronti del genere femminile da parte di quello maschile. L’art. 1 della Dichiarazione delle Nazioni Unite sull’Eliminazione della Violenza contro le Donne (Vienna, 1993) la definisce come ogni atto legato alla differenza di sesso che provochi o possa provocare un danno fisico, sessuale, psicologico o una sofferenza della donna, compresa la minaccia di tali atti, la coercizione o l’arbitraria privazione della libertà sia nella vita pubblica che nella vita privata

Il rosso, da sempre simbolo della passione e dell’amore, muta la sua valenza simbolica e diviene commemorativo del sangue delle vite che vengono spente a causa di ciò che amore non è. Per comprenderne meglio gli aspetti, ci siamo rivolti a Luigia Rosito, responsabile del Centro Antiviolenza Fabiana

Il 17 luglio 2019 è stato approvato il Codice Rosso. Tra le finalità perseguite dalla legge, l’introduzione di una corsia “preferenziale” delle denunce aventi ad oggetto casi di violenza domestica e di genere. Ha riscontrato, nel corso del suo operato, un miglioramento nei tempi di risposta alle richieste di aiuto?

Si, dall’introduzione del Codice Rosso le tempistiche rispetto all’assunzione delle informazioni da parte delle forze dell’ordine si sono notevolmente ridotte. Non sono stati quasi mai rispettati i 3 giorni previsti ma, comunque, nell’arco temporale di una settimana le donne vengono ascoltate preliminarmente.

La Convenzione di Istanbul viene contraddistinta dalle cosiddette tre “p”: prevenzione, protezione, punizione; concretamente quindi prevenire la violenza, favorire la protezione delle vittime, impedire l’impunità dei colpevoli. Le finalità perseguite dal trattato trovano piena realizzazione all’interno delle realtà locali che abitiamo?

Stiamo muovendo i primi passi. Siamo solo all’inizio. C’è da lavorare molto su ognuna delle “p” e nel nostro territorio le cose sono molto più difficili che altrove. Sulla prevenzione le iniziative si stanno sviluppando ed incrementando. C’è maggiore attenzione sul tema anche se diversi messaggi vengono, a mio parere, generalizzati senza analizzare nel dettaglio le peculiarità proprie di ogni caso, di ogni storia. Sul piano della protezione manca ancora un raccordo reale ed effettivo con tutti i soggetti istituzionali con i quali si dovrebbe cooperare per realizzare una protezione effettiva ed efficace della persona vittima di violenza. Impedire l’impunità dei colpevoli non è nostro compito ma compito dello Stato e della la legge, considerando altresì la previsione dell’inasprimento delle pene proposta nel Codice. 

E’ presente un canale di comunanza e collaborazione fra i diversi centri presenti nel territorio regionale o ciascun operato viene portato avanti in maniera autonoma?

A livello di Centri Antiviolenza e Case Rifugio esiste un coordinamento regionale (CADIC – Coordinamento Antiviolenza Donne Insieme Calabria) che ha una funzione di rappresentanza a livello istituzionale. Ogni Centro Antiviolenza e Casa Rifugio risponde , a livello operativo, a criteri e principi ispirati al contrasto della violenza sulle donne, alla metodologia dell’accoglienza, alla libera autodeterminazione della donna, all’attuazione di percorsi individualizzati per la fuoriuscita dalla condizione di violenza subita.

In base alla sua esperienza professionale, crede che l’autore della violenza sia mosso da “fratture identitarie” riconducibili alla propria storia e vissuto che possano aver trovato forti ripercussioni nel corso della vita adulta?

Ogni storia di violenza si inserisce in un contesto culturale che la rende possibile. Senza definiti orientamenti culturali appresi non ci sarebbero comportamenti violenti. A partire da questa premessa, tra gli uomini violenti possiamo ritrovare qualsiasi caratteristica di personalità o “disturbo identitario”.

Vittime di diversi episodi di violenza domestica sono spesso anche minori. Come viene oggi concretamente sviluppata la tutela dei soggetti più vulnerabili?

Questo è un altro aspetto debole su cui lavorare. C’è molto da fare per aumentare la sensibilità degli adulti e la loro capacità nel saper riconoscere minori vittime di violenza. La crescente attenzione riservata al fenomeno della violenza assistita è stata  tradotta in un riconoscimento normativo da parte del legislatore penale, prima con la l. n. 119 del 2013 (legge sulla violenza di genere) e poi con la l. n. 69 del 2019 (c.d. codice rosso).  La legge del 2019, in particolare, è intervenuta sulla formulazione dell’art. 572 c.p. che riconosce il minore di anni diciotto, che assiste ai maltrattamenti, come persona offesa dal reato. L’inserimento di un minore all’interno di una comunità di tipo familiare può essere disposto con modalità differenti a seconda che vi sia o meno il consenso dei genitori o del tutore. In particolare, può essere disposto dall’autorità amministrativa, quindi dal servizio sociale locale, laddove sussista il predetto consenso reso poi esecutivo con decreto dal giudice tutelare (cosa abbastanza ardua quando viene mossa un’accusa in quanto sussiste nel nostro ordinamento la presunzione di innocenza) o in mancanza di consenso dei genitori o del tutore, è necessario un provvedimento del tribunale per i minorenni. La prima forma di aiuto, come accennato, è offerta dalla rete delle relazioni più vicine per cui è sempre necessario non restare privi di riferimenti.

Le misure di contenimento richieste negli ultimi mesi hanno registrato un aumento significativo delle richieste di aiuto. Una donna che non intenda esporre denuncia, può rivolgersi ad un centro Antiviolenza? E’ già presente nelle diverse realtà di pronto-intervento un sistema di messaggistica e non solo di chiamata?
Si, le donne che si rivolgono al Centro Antiviolenza Fabiana non devono per forza sporgere denuncia e possono iniziare un percorso di fuoriuscita dalla condizione di violenza. Il nostro Centro è raggiungibile attraverso ogni forma e canale di contatto oggi possibile: oltre ai tradizionali sistemi di chiamata e messaggistica, disponiamo di tutti i canali social oggi più diffusi. Anche il sito (www.mondiversi.it nella sezione C.A.V.) permette di offrire assistenza e sostegno online tramite chat privata, operativa anche quando la chat risulta in modalità offline.

Gli autori delle violenze vengono introdotti in percorsi terapeutici all’interno degli istituti penitenziari e case circondariali? Quanto il rifiuto del percorso terapeutico prospettato  incide sulla condotta futura, specialmente nei casi  di uno sconto di pena e quindi di un’uscita anticipata? 

Su questo argomento non ci sono dati precisi, ma è facile pensare che molti detenuti accettino un percorso di recupero per ottenere benefici e sconti di pena. Sarebbe necessario lavorare su una rieducazione del reo che prescinda dalla possibilità del beneficio di una espiazione ridotta della pena.

Cosa, secondo lei, rende una persona libera e cosa augura alle donne che oggi vivono queste difficoltà?

La libertà è una condizione per la quale la persona può decidere di pensare, esprimersi, agire, comportarsi senza costrizione alcuna, mediante una libera scelta. Ciò che auguro alle donne vittime di violenza è che riflettano sull’eventualità di aprirsi alle diverse possibilità che la vita presenta perché possano capire che esistono diverse alternative rispetto alla condizione in cui si trovano, al fine di sentirsi pienamente nella condizione di libertà finora negata da una relazione violenta.

Angela Servidio