The Good Mothers: una storia di donne e ‘ndrangheta

“The Good Mothers” – “Le Brave Madri” – è una serie televisiva prodotta da Disney+ e disponibile sulla stessa piattaforma dallo scorso 5 aprile; racconta la storia di quattro donne che, per motivi diversi, si trovano a fronteggiare una delle più temibili organizzazioni criminali, la ‘Ndrangheta calabrese.

Basato sul romanzo del giornalista e scrittore britannico Alex Perry, “The Good Mothers” offre allo spettatore uno sguardo inedito del fenomeno mafioso, che viene interamente raccontato dal punto di vista delle donne. Il primo personaggio che compare nella storia è Denise Cosco – interpretata dalla giovanissima Gaia Girace, già protagonista della fiction tratta dal bestseller di Elena Ferrante, “L’amica geniale” – figlia del boss Carlo Cosco – interpretato dall’attore calabrese Francesco Colella – e di Lea Garofalo – interpretata da Micaela Ramazzotti – entrambi originari di Pagliarelle, piccolo paese della provincia di Crotone, ed entrambi affiliati alla ‘ndragheta: Lea per nascita prima e matrimonio poi, Carlo per partecipazione a giri delinquenziali che lo vedono scalare i vertici dell’organizzazione che si arricchisce grazie allo smercio di cocaina in giro per l’Europa. Durante quella che sembrerebbe un’innocua gita fuori porta a Milano con i genitori, Lea misteriosamente scompare e Denise deve fronteggiare un incubo che vede la propria famiglia tramare alle spalle della madre, colpevole di essere stata anni prima testimone di giustizia. Ben presto Denise capirà che la ‘ndrangheta non fa sconti a nessuno, vive seguendo regole precise: non sono permesse deroghe o errori, qualsiasi “sbavatura” si paga molto cara.

Per le donne di “The Good Mothers”, la famiglia rappresenta un legame indissolubile e una maledizione. Le donne della ‘ndrangheta infatti sono sfruttate, massacrate e perfino uccise nelle loro case. I parenti si trasformano velocemente da protettori a carnefici in una dinamica perversa accettata dalla società come “la prassi”. Questo scenario è chiaro a un altro dei personaggi chiave della storia, il pubblico ministero Anna Colace – interpretato da Barbara Chichiarelli – che, a differenza dei suoi colleghi uomini, realizza l’importanza del ruolo delle donne all’interno delle organizzazioni criminali e decide che proprio queste potrebbero permettere alla giustizia di permeare la trama inaccessibile di regole e segreti delle famiglie ‘ndranghetiste. Questa fittissima rete di intrighi e traffici inattaccabile dall’esterno può essere attaccata dall’interno, con l’aiuto delle donne.

Donne prigioniere nella propria casa, donne costrette a sposarsi da ragazzine per crescere figli condannati allo stesso destino, donne i cui sogni e desideri vengono soffocati dai rigidissimi codici di comportamento che non consentono di esercitare la più piccola libertà che sia il desiderio di trattenersi a parlare con un’amica qualche minuto in più nella piazza del paese, o decidere di indossare del rossetto rosso senza essere bollata come “puttana” e per questo venire massacrata di botte.
La ‘ndragheta, che usa gli uomini per creare la rete delinquenziale, diventa un fenomeno più crudele e pericoloso per le donne che, oltre a vivere sottomesse e dover obbedire al potere maschile, vivono con il terrore di vedersi portati via i figli o peggio, che questi seguano le orme dei propri padri e familiari e vengano iniziati ad una vita di delitti in un eterno ripetersi di schemi dove la violenza e la sopraffazione la fanno da padrone.

La P.M. Anna Colace, nel corso delle sue indagini, tiene sotto stretta sorveglianza tre famiglie in particolare, che sono le protagoniste della serie: la famiglia Cosco di Pagliarelle, di cui fanno parte Denise, il padre Carlo e la madre Lea; la famiglia Pesce di Rosarno, di cui fanno parte, tra gli altri, Francesco, detto “Ciccio” e la sorella Giuseppina – interpretata dall’attrice Valentina Bellé; la famiglia Cacciola, di cui fa parte Maria Concetta – interpretata dall’attrice Simona Distefano. La strategia della P.M. è all’apparenza semplice: convincere le donne delle famiglie ‘ndranghetiste a collaborare con la giustizia mostrando loro un’alternativa a quella vita di soprusi. L’operazione, però, si rivela tutt’altro che semplice. Se da un lato collaborare con la giustizia rappresenta per queste donne l’opportunità di ottenere quella libertà sempre negata, dall’altro lato significa voltare le spalle alla famiglia, tradirle, allontanarsi dai figli, essere disconosciute dal paese di origine; in poche parole, restare sole. È questo che succede a Giuseppina e Concetta. Entrambe, per motivi diversi, decidono di collaborare con la P.M. e vengono poste nel programma di “protezione testimoni”. Lasciano le proprie case, “abbandonano” i figli ed iniziano una vita sotto scorta. Vengono trasferite in altre regioni, lontano dalla Calabria, ed iniziano un periodo di isolamento che proibisce loro di contattare i propri genitori, gli amici o chiunque appartenga alla “vita precedente”. Una solitudine estrema che, per alcune di loro, diventa più insopportabile delle antiche dinamiche.

Allora, cosa resta da fare?
Quando i tuoi familiari minacciano di trovarti anche in capo al mondo, o peggio, se ti fanno credere di averti “perdonato l’affronto” e ti invitano a tornare a casa per tornare a vivere la stessa vita di prima, quali solo le alternative?

Combattute tra il desiderio di libertà e il rimorso, in una continua altalena che oscilla tra la vita e la morte, le donne di “The Good Mothers” vincono, perdono, ma soprattutto lottano, in un contesto dove i tuoi stessi familiari sono pronti a voltarti le spalle, dove parlare significa perire e quindi la maggioranza preferisce tacere. Eppure, queste donne avanzano, lentamente, smuovono le acque, fanno tremare gli uomini che si credevano invincibili. Con le loro storie risvegliano le coscienze di chi si credeva dimenticato e solo e illuminano la strada verso un futuro di libertà e pace.


Articolo pubblicato su Il Quotidiano del Sud – L’Altravoce dei ventenni