Social network, quando il deplatoforming a Trump riaccende il dibattito

Ricordo ancora il mio primo approccio ai social network: erano gli anni Zero, MSN e MySpace davano a noi giovani – che ancora non sapevamo di essere Millennials – una finestra sul mondo da cui osservare, essere osservati, condividere stati d’animo e pensieri nella pia illusione di essere semplicemente visti. Nel giro di pochi anni, abbiamo compreso di avere tra le mani un megafono, un’arma potentissima e numerose piattaforme su cui socializzare, cercare informazioni o lavoro, condividere interessi esercitando così la libertà di espressione in ogni sua forma.

La libertà della manifestazione del pensiero è uno dei diritti più preziosi: come precisa lo stesso art. 11 della Dichiarazione dei Diritti dell’Uomo e del Cittadino, “ogni cittadino può dunque parlare, scrivere, stampare liberamente, salvo a rispondere dell’abuso di questa libertà nei casi determinati dalla Legge”. A essere tutelate, dalla dichiarazione prima e da Convenzioni, Costituzioni e Trattati poi, non sono solo le opinioni comunemente accettate dalla società, ma anche quelle critiche, fatte di dissenso politico e sociale, purché esso non porti ad atti di violenza.
Il dibattito politico costituisce il cuore di qualunque società democratica, anche online. Ed è per questo che fa discutere, negli ultimi tempi, il cosiddetto deplatforming che ha colpito gli account di Donald Trump, la decisione cioè di bloccare tutti i suoi account social almeno sino all’insediamento del Presidente eletto Joe Biden. Le ragioni dietro a questa decisione riguardano l’ordine e la sicurezza pubblica, ma riaccendono anche i riflettori sullo stato di salute della Rete.
Da Twitter a Facebook, da Shopify a Youtube, gli account di Trump sono oggetto di restrizioni perché violano le policy, comprendono contenuti che incitano alla violenza, diffondono informazioni false o facilitano attività illegali e pericolose. Il dibattito coinvolge addetti ai lavori, semplici fruitori di servizi online, politica ed etica: la libertà di manifestazione del pensiero ha confini definiti e non può tutelare ciò che contrasta la libertà stessa e la democrazia.

Andiamo per gradi. Le opinioni sono sì tutelabili, ma non tutte, non quelle cioè che mirino a cancellare la libertà di espressione o sovvertire la democrazia. La libertà di espressione è, inoltre, appannaggio dell’individuo che partecipa al dibattito pubblico – passaggio essenziale per l’esercizio della sovranità popolare – esercitando così un aspetto attivo, dovuto alla manifestazione stessa della libertà, e uno passivo, costituito dal diritto ad accedere alle informazioni. Se i mezzi di comunicazione come tv e giornali nascono come media regolamentati e controllati, Internet ha, sin dal primo giorno, sovvertito questo ordine e portato a termine la democratizzazione della libertà della manifestazione del pensiero: chiunque può esercitare questa libertà, è sufficiente un blog oppure un account su un social network.
Cosa succede, tuttavia, quando un utente – ad esempio, Trump – utilizza i propri account per fomentare una folla di sostenitori a commettere atti violenti o, quantomeno, non disapprovando quelle iniziative, anzi quasi legittimandole? Il deplatforming che è seguito è legittimo oppure no? Non c’è una risposta esatta, ma rappresenta un punto di svolta, impone una riflessione sul ruolo dei fornitori di servizi nella società dell’informazione e sottolinea, oggi più che mai, come la comunicazione tout court abbia carattere politico.

L’importante, però, è che se ne parli. Finalmente.

Già pubblicato su L’Altravoce dei Ventenni-Quotidiano del Sud 18/01/2021