I.C.A.T.T. di Eboli: un micromondo carcerario incontra l’esterno

Quando sentite la parola “carcere”, cosa vi viene in mente?
Sono sicura che molti avranno immagini grigie pensando a questa parola: solitudine, pericolo, dolore, violenza e paura, del resto, come dar loro torto. Eppure, oltre a questa carrellata di flash che vediamo scorrere d’impatto, davanti ai nostri occhi, cosa pensiamo se proviamo a ragionare su questa parola un po’ più a fondo?

Il carcere è un luogo fisico che dovrebbe essere una tappa e a volte diventa una meta, uno strumento utile a coloro che ci finiscono dentro col fine di essere rieducati e reinseriti nella società in cui viviamo. Dunque il carcere non è solo un cumulo di monadi dense, ma è stato pensato per essere principalmente un luogo di miglioramento dell’essere umano che ha “tradito” la legge. 

Siamo così abituati a vedere serie tv, film che ci descrivono un mondo carcerario totalmente negativo che non siamo più spinti a pensare che il fine ultimo della sua essenza non è recidere, tarpare e vietare piuttosto è accompagnare verso una vita nuova, rafforzando quelle potenzialità di ogni singolo individuo già possiede nella propria natura. Resta il fatto che dietro le sbarre più che vivere, si cerca di sopravvivere. Ognuno resta solo coi suoi pensieri, coi suoi sbagli e col proprio futuro che li dentro sembra ogni giorno più lontano e incerto. Ciononostante tutto questo turbinio di paura, soffocamento e chiusura, talvolta viene alleviato dalle persone che lavorano all’interno delle carceri e provano a stabilire una vita che sia cadenzata da momenti di qualità e benessere. In carcere ogni ora sembra lunga un giorno interno, e quando viene offerta la possibilità ai detenuti di passare un’ora diversa, fuori dalla routine, sembra sia passata una giornata nuova, più reale. 

“Cerchiamo di organizzare incontri con i detenuti, invitando persone che possano essere vicine al loro mondo, da cui possano prendere uno stimolo concreto per pensare di migliorare una volta fuori di qui” ci racconta Monica Faiella, Funzionario Socio Pedagogico dell’Istituto a Custodia Attenuata (I.C.A.T.T.) di Eboli (SA), mentre una fredda sera invernale all’interno del cortile del Castello Colonna, che ospita il carcere, aspettiamo l’arrivo di Rocco Hunt. Gli ospiti della struttura sono giovani uomini, qualcuno ha gli occhi disinteressati, sono arrivati da poco, non capiscono il senso di quell’incontro, altri, aspettano col sorriso, finalmente, dopo una serie interminabile di giorni tutti uguali, quello è un giorno buono. 

“Tutto quello che viene fatto all’interno di queste mura ha l’intento di coinvolgere ogni singolo detenuto della struttura, nessuno deve essere escluso” afferma il Direttore Dott. Paolo Pastena, e continua dicendo “ ognuno di loro un giorno dovrà tornare nelle proprie case, ma per ora è questa la loro casa, e sta a noi, personale amministrativo del carcere, garantirgli la possibilità di un momento che, seppur possa sembrare di mero svago, li aiuta a pensare che una via possibile esiste” Rocco Hunt è un ragazzo giovane, è campano, come la maggior parte di loro e con le sue canzoni briose racconta di una vita migliore, può essere uno sprone,  anche se servisse per uno solo di loro.

Ogni persona all’interno dell’organico di un carcere ha un ruolo preciso ed importante, ognuno porta con sé la responsabilità di educare le persone che sono ospiti passeggeri di quel luogo, sostenere ed educare qualcuno è già molto complicato di per sé ma pensare di farlo nei confronti di persone adulte, che hanno vissuto in contesti che probabilmente molti di noi non immaginano, che hanno viaggiato e scoperto i nidi più fitti e gli angoli più nascosti della strada e della malavita, allora si che diventa complicato. Si rischia di simulare un’educazione, di fingere di credere che fuori, oltre, ci sia una possibilità per tutti, si rischia di rovinare il vero motivo per cui le strutture carcerarie esistono. Non è a violenza, pericolo e paura che dovremmo pensare quando sentiamo la parola carcere, ma esseri umani, prima di tutto, partecipazione attiva, possibilità di riscatto, crescita e potenziale.

Il direttore racconta che all’I.C.A.T.T. di Eboli sono stati fatti in passato molti incontri con scrittori, cantanti, attori che hanno portato una ventata di possibilità per quei ragazzi, e ci sono stati molti esempi di persone che una volta uscite sono riuscite a cambiare vita. Gli incontri sono anche un modo per unire l’esterno con  il micromondo che si crea nel carcere, per questo ci tiene a farne altri così che possano far affrontare le giornate in modo migliore, così che ogni giorno sia Nu Juorn buon, come direbbe Rocco Hunt. 


Articolo pubblicato su Il Quotidiano del Sud – L’Altravoce dei ventenni