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Un'immagine dell'ultima edizione del Festival del proletariato giovanile | ph: pagina Facebook William Trivellato

Parco Lambro, né gioia né rivoluzione

Dal 26 al 29 giugno 1976 l’edizione più turbolenta del Festival di «Re Nudo»

Pace, amore e buona musica: l’onda lunga dei grandi raduni e dei megaconcerti che, a partire dal fatidico 1967, avevano chiamato a raccolta tutti i grandi nomi della musica internazionale raggiunse all’imbocco degli anni Settanta anche le nostre latitudini. Ci aveva provato per primo l’ambizioso Joe Napoli con il Palermo Pop, seguito a ruota da Giovanni Cipriani – l’ideatore del Festival Pop di Caracalla – e Massimo Bernardi, che scelse Viareggio per una rassegna dedicata alle tendenze d’avanguardia della canzone italiana.

Niente a che vedere con il giro d’affari delle grandi tournées, finite nel mirino dei giovani contestatori: la musica doveva essere alla portata di tutti. La stessa intuizione seguita dal figlio di un ricco industriale milanese che aveva fondato nel novembre 1970 una delle prime riviste di controcultura italiane, «Re Nudo». I concerti come una propaggine dell’impegno politico promosso dal mensile: l’orizzonte tracciato da Andrea Valcarenghi, che organizzò nel settembre 1971 la prima edizione del Re Nudo Pop Festival in una piccola contrada della provincia di Lecco, Montalbano di Ballabio. Non la sola meta inconsueta per le rotte musicali dell’epoca: prima un borgo di 600 anime dell’Oltrepò Pavese, Zerbo, poi l’Alpe del Viceré, a due passi da Albavilla (Como), per la rassegna del 1973. Nulla che scoraggiasse il popolo degli hippies, sopravvissuto al tramonto dell’utopia sessantottina e alle tensioni sociali appena esplose in Italia: non meno di 10mila spettatori per la prima edizione, quasi il doppio per la rassegna del 1973, nonostante il boicottaggio dell’amministrazione comunale e di una parte della comunità di Albavilla («Genitori, tenete in casa i vostri figli», ammoniva un volantino anonimo).

Polo di aggregazione per coloro che non si riconoscevano nei valori e nelle posizioni della sinistra tradizionale, i primi Festival di «Re Nudo» ribadirono la loro alterità anche dal punto di vista musicale: nessun nome di richiamo in cartellone, carta bianca ad artisti e gruppi che battevano le strade della ricerca e della sperimentazione. L’eclettismo sonoro degli Area, il rock di impronta progressive dei Garybaldi, l’impegno politico di Giovanna Marini e degli Stormy Six, fino all’elettronica dell’esordiente Franco Battiato: un cast per intenditori, coerente con lo spirito di un festival che ospita dibattiti sul pacifismo e sull’emancipazione femminile e performance degli artisti di Brera. Le fratture prodotte dalla crisi economica del 1973, però, suggeriscono a Valcarenghi di ripensare profondamente l’evento, modificandone anzitutto la ragione sociale: il Festival del proletariato giovanile – organizzato al Parco Lambro di Milano dal 1974 al 1976 – è l’occasione per ascoltare la voce di un’intera generazione in conflitto. Non più un raduno per poche migliaia di appassionati, bensì un esame di coscienza collettivo proprio negli anni in cui la «strategia della tensione» si sovrappone alle grandi battaglie civili del decennio, in testa divorzio e aborto.

La festa di «Re Nudo» scopre nuovi interlocutori, dal Partito radicale a Lotta continua, e comincia ad attirare l’attenzione della grande industria discografica. L’anima libertaria degli esordi resta tutto sommato intatta anche sui palchi allestiti nella periferia nord-orientale della metropoli, dove sfilano la Premiata Forneria Marconi, ormai in procinto di sbarcare negli Stati Uniti dopo il grande successo di Storia di un minuto e L’isola di niente, gli Area (che sfidano il pubblico con un’esibizione a metà strada tra musica e situazionismo) e la fecondissima scena napoletana: i Napoli Centrale, Edoardo Bennato, Tony Esposito e Alan Sorrenti, non ancora «figlio delle stelle».

Tuttavia, il Festival del proletariato giovanile precipita in breve tempo nella spirale della contestazione. Che esplode in occasione del 6° raduno, in programma dal 26 al 29 giugno 1976. Due giorni di relativa quiete, poi le prime manifestazioni di dissenso, dovute all’assenza di adeguati servizi igienici e, soprattutto, ai costi fuori controllo degli alimentari venduti negli stand. La collinetta di Parco Lambro è una polveriera pronta ad esplodere: tutto inizia nella notte tra domenica 27 e lunedì 28, quando i militanti di Autonomia operaia prendono d’assalto i furgoni in cui sono custoditi centinaia di polli e bistecche da arrostire e il banchetto dei Collettivi omosessuali milanesi. Il giorno dopo, la violenza prende definitivamente il sopravvento: prima l’irruzione degli autonomi in un chiosco nei pressi del laghetto di Parco Lambro, poi un tentativo di «esproprio proletario» (in altre parole: una razzia) a un vicino supermercato, bloccato soltanto da un energico intervento delle forze di polizia. Neppure la riduzione dei prezzi riesce ad arginare il malcontento: assemblee turbolente ritardano il programma dei concerti e degli spettacoli. C’è spazio addirittura per l’incursione di uno spettatore completamente nudo durante l’esibizione del trombettista Don Cherry.

«Questo è l’ultimo festival pop», commenta amaramente Valcarenghi, cui pure viene rimproverata la gestione poco trasparente dei prezzi. Tuttavia, sui prati di Parco Lambro si è appena consumata una frattura insanabile: da una parte, le forze creative che alimenteranno l’estrema utopia del ’77, dall’altra le frange più violente che fiancheggeranno la lotta armata. A Parco Lambro l’aria odorava già di piombo.


Articolo pubblicato su Il Quotidiano del Sud – L’Altravoce dei ventenni