Deadline, la sensazione dolce-amara che tutti conosciamo

Termine ultimo, scadenza improrogabile: si avvicina la deadline per la consegna dei lavori. Etimologia: voce ingl.; propr. ‘scadenza’, comp. di dead ‘morte’ e line ‘linea’”. Questa è la definizione secondo il dizionario Garzanti della parola “deadline”. Se c’è una espressione che può riassumere una condizione condivisa da miliardi di persone è proprio deadline. La scadenza è una sensazione maledettamente contemporanea e attuale. Tutti conoscono ciò che c’è prima di quella linea, cioè una mole di lavoro da sbrigare, spesso a prescindere da tutto il resto. Possiamo considerarla come la sottile linea da non superare: oltre, infatti, troviamo l’ignoto e il vuoto o, più concretamente, una ramanzina che potrebbe costarci diversi problemi, in particolare sul posto di lavoro. Ma le deadline esistono anche in altri ambiti: pensiamo a quello pubblico, quando vogliamo iscriverci a un concorso. Se lo facciamo un minuto solo dopo la scadenza (la nostra deadline), la domanda sarà automaticamente respinta. La parola deadline è salita alla ribalta durante i primi giorni di questo nuovo anno grazie al New Yorker, periodico statunitense nato nel lontano 1925 e alla copertina – edita dall’italiana Bianca Bagnarelli, artista, illustratrice e fumettista – che ritrae una donna in tuta e calzini, sola in una stanza illuminata solo dall’ampio schermo di un computer, mentre fuori dalla finestra si accendono luci e si vedono fuochi d’artificio, probabilmente a segnare la fine dell’anno. Una festa alla quale la protagonista non può partecipare: nella stanza si vedono pile di fogli accartocciati e un file aperto sulla schermata del pc. Sulla scrivania c’è un bicchiere ormai vuoto e una tazza, probabilmente lì dalla colazione, con all’interno una buccia di banana, spuntino consumato come spesso succede davanti allo schermo. E sulla stampante si intravede anche un piatto, che probabilmente poche ore prima conteneva il pranzo o la cena. Unica compagnia è un gattone nero, accoccolato sui fogli. La parola deadline è così universalmente diffusa che le è stata dedicata, addirittura, la prima copertina del nuovo anno. Che mondo ci aspetta, allora? E a che punto siamo arrivati? Sempre più spesso mi è capitato di sentire i miei coetanei ammettere di aver lavorato durante le feste. Io stessa l’ho fatto. Se da una parte si pensa di sfruttare i ritagli di tempo nei momenti in cui il resto del mondo si ferma, alla fine della giornata ci si rende conto di perdersi tutto il divertimento, e resta solo una sensazione dolce-amara.

Una condizione comune a milioni – se non miliardi – di persone nel mondo. L’effetto di immedesimazione nella donna protagonista è facile: tra chi la interpreta come immagine di serenità a chi (i più) la considera come la rappresentazione del lavoro così come è oggi e delle difficoltà delle persone che lavorano. Se lo abbiamo scelto noi, c’è anche della malinconia: ti stai perdendo qualcosa, fuori imperversa una festa e tu non puoi partecipare, ma è comunque una visione serena, di ritiro e calma da un momento caotico. E ci sono anche tante persone che quel momento non lo scelgono: qualcun altro ha dato una scadenza durante le feste e tocca lavorare, è un obbligo. Quei momenti di frenesia (lavorativa, soprattutto) rappresentano sia l’inizio che la fine, tra l’ansia di mettersi subito al lavoro e quella di perdersi la festa fuori. In questo nuovo anno, iniziato solo da qualche settimana ma già denso di avvenimenti e di frenesia, dovremmo seriamente iniziare a riflettere e a dibattere sul mondo del lavoro di oggi, fatto di angoscia per arrivare in tempo e di paura di non farcela. Di tempo che sentiamo di non avere o che, comunque, non sfruttiamo mai appieno. Un’immagine che suscita sentimenti tempestosi. Vale allora la pena tornare all’intestazione e riflettere sulla parola “deadline”: letteralmente si può tradurre in “linea della morte” o “linea mortale”. E questa traduzione, accostata al tema delle scadenze lavorative, fa un po’ accapponare la pelle: stiamo sacrificando la nostra vita in nome del lavoro? Abbiamo bisogno che ci esplodano i fuochi d’artificio di fronte agli occhi per farci risvegliare dall’assuefazione lavorativa? Abbiamo ormai rinunciato a lavorare per vivere e siamo inevitabilmente tutti finiti con il vivere per lavorare?

Articolo pubblicato su Il Quotidiano del Sud – L’Altravoce dei ventenni