Ius culturae, un dibattito aperto

La sindrome da soluzione semplice – patologia sempre più diffusa che consente a chiunque, anche sprovvisto dell’autorevolezza che necessiterebbe per affrontare temi complessi, di sedersi ai tavoli governativi e far valere il proprio punto di vista – ha colpito ancora. Ma il punto è che non esistono soluzioni semplici a problemi complessi, altrimenti questi non sarebbero complessi e – anzi – è probabile che non sarebbero neanche problemi. Ed ecco che, ancora una volta, la sindrome sta invadendo il dibattito pubblico su temi oltremodo delicati.

Parliamo dello ius culturae, di cui tanto si discute nelle ultime settimane. L’opinione pubblica è spaccata – complice la cattiva comunicazione di molti esponenti dell’agone politico – tra chi dice ‘assolutamente sì’ e chi ‘assolutamente no’. Ma può davvero ridursi tutto a questo? Oltre gli slogan ed i tifosi occasionali, stiamo parlando di un argomento che presenta diversi profili di criticità: con l’espressione ius culturae si intende un principio di diritto in ragione del quale gli stranieri minori possono acquisire la cittadinanza del Paese in cui vivono qualora ne abbiano frequentato le scuole (o comunque altro ciclo formativo) per un determinato numero di anni. La differenza con lo ius soli risiede nel fatto che quest’ultimo collega l’ottenimento della cittadinanza al sol fatto di essere nato sul territorio italiano, a prescindere dalla cittadinanza dei genitori e dal percorso di formazione.

Procediamo con ordine.

Quando parliamo di cittadinanza, ci riferiamo a quel rapporto che lega un individuo a uno Stato, necessario per il godimento di diritti e l’assoggettamento a determinati oneri. In Italia, la legge di riferimento è la 91 del 5 febbraio 1992, che individua alcuni principi in forza dei quali è possibile ottenere lo ‘status’ di cittadino italiano. È dunque cittadino per nascita il figlio di madre o padre cittadini, chi è nato nel territorio italiano da genitori ignoti o apolidi e chi, figlio di genitori ignoti, viene trovato nel territorio della Repubblica senza che risulti cittadino di altro Stato. Acquista la cittadinanza, poi, anche il minore straniero adottato da cittadino italiano. È possibile, inoltre, diventare cittadino italiano per naturalizzazione o per matrimonio al ricorrere di determinate condizioni. Infine, per quanto riguarda gli stranieri nati in Italia, questi possono diventare cittadini italiani a patto che abbiano risieduto sul territorio della Repubblica ininterrottamente e legalmente fino al compimento della maggiore età, ove ne facciano richiesta entro un anno dalla suddetta data.

Lo ius culturae

La nuova proposta di legge, che poi così nuova non è (se ne parla da circa quindici anni ed era stata già approvata dalla Camera nel 2015 per poi arenarsi in Senato), prevede una modalità di acquisto della cittadinanza del tutto inedita per l’ordinamento italiano, rivolta ai minori stranieri nati in Italia o arrivati entro il dodicesimo anno di età. Questi ultimi potranno ottenere la cittadinanza qualora frequentino regolarmente un percorso formativo di almeno cinque anni presso un istituto scolastico italiano, e qualora un genitore ne faccia richiesta al Comune di residenza. Naturalmente – come accade per gli altri modi di acquisto della cittadinanza – ad essa è possibile rinunciare entro due anni dal raggiungimento della maggiore età. Nello stesso termine è possibile, per coloro i cui genitori non hanno inoltrato l’istanza di cui sopra, fare personalmente la richiesta. Come è facile intuire, l’argomento è assai complesso e non è possibile affrontarlo dettagliatamente da un punto di vista giuridico.
Vale la pena sottolineare, ad ogni modo, che le norme che regolano la cittadinanza sono di per sé norme dinamiche, soggette ai mutamenti socioeconomici e, soprattutto, evidentemente sensibili ai fenomeni migratori: salta all’occhio allora come una legge del 1992 sia da considerarsi, nel complesso, obsoleta.
Del resto, si dimostrarono obsoleti lo stesso Codice civile del 1865, mutuato dalle leggi del Regno di Sardegna, rivelatosi inadeguato non appena il flusso migratorio di italiani che andavano all’estero e poi tornavano divenne massiccio e incontrollabile e, dopo, la legge del 1901 sull’emigrazione, quella del 1906 sulle naturalizzazioni e la legge n. 555 del 1912.
Dunque, proprio in un contesto come quello odierno, non può non considerarsi doveroso un ripensamento generale delle disposizioni che regolano l’acquisizione dello ‘status’ di cittadino, stante la velocità dei mutamenti del tessuto demografico cui assistiamo quotidianamente e il numero sempre più alto di ragazzi e ragazze stranieri che risiedono stabilmente nel nostro Paese.

I dati

Quanti sono gli studenti extracomunitari in Italia? Chi sono effettivamente i destinatari di un intervento mirato a superare la legge del 1992?
I dati che emergono dalla lettura dei report ministeriali e degli istituti di studi statistici sono di notevole interesse. Sarebbero infatti circa 102.000 (per l’anno scolastico 2017-2018) gli studenti di nazionalità extracomunitaria che hanno completato un ciclo scolastico in Italia. Tuttavia, se questo dato lo incrociamo con quello che riguarda la popolazione residente, il quadro si presta a una lettura più ampia.
Dal 2015, infatti, la popolazione residente in Italia è in calo: dai 60.483.000 circa del dicembre 2017, sono 60.359.546 i residenti al dicembre 2018, con un gap di circa 124.000 residenti (-0,2% in un anno).
È impressionante notare, da questi semplici dati, come – se fosse approvato lo ius culturae – i nuovi cittadini italiani andrebbero a ‘riempire’ il vuoto derivante dal calo demografico in essere, il che non è un elemento affatto sottovalutabile. Soffrire di un trend demografico negativo genera in uno Stato una serie di effetti sistemici negativi: l’invecchiamento della popolazione, che è in sé, ma anche, ad esempio, lo svuotamento delle aree interne o il collasso del sistema pensionistico.

Non bisogna, a questo punto, andare troppo oltre per comprendere che ci troviamo di fronte a un tema complesso, per cui è necessario un approccio trasversale che permetta di studiarne in maniera approfondita tutti i risvolti. Non è possibile dire sì o no, essere pro o contro, affidarsi all’urlatore di turno che giura di essere nel giusto. Bisogna che tutte le forze politiche si siedano attorno a un tavolo, senza pregiudizi né sterili prese di posizione, coinvolgendo la società civile in un cruciale e necessario dibattito pubblico. La Commissione Affari Costituzionali ha iniziato il sei ottobre scorso a occuparsi di nuovo delle tre proposte di legge ferme da anni in Parlamento. Quella dello ius culturae vede come prima firmataria Renata Polverini (vi sono poi quelle a firma Matteo Orfini e Laura Boldrini), la quale si è trovata costretta ad autosospendersi dal gruppo parlamentare di Forza Italia data la situazione di imbarazzo generata dall’appoggio delle forze di maggioranza alla proposta dell’ex governatrice della Regione Lazio. Quest’ultima circostanza evidenzia l’incertezza della classe politica ad aprirsi a un confronto ragionato sulla questione, che esuli da valutazioni di convenienza partitica.

Ciò purtroppo non sta accadendo, sia che si guardi alla maggioranza di governo che alle opposizioni. Da una parte, infatti, si assiste ad una retorica buonista che starebbe meglio in una pubblicità tipo Mulino Bianco: c’è chi dice che non è il momento, perché si porterebbero voti a Salvini (dato che ormai ogni cosa sembra porti voti a Salvini) e chi dice che i problemi sono altri e non è una priorità. Dall’altro lato, s’assiste invece a sterili petizioni di principio, che spaziano dall’inaccettabilità di una riforma fatta da un governo abusivo alla paura che si crei un effetto banlieu che faccia da sponda a un incremento del pericolo islamico. Non si sente nessuno – nessuno – che affronti il tema per quel che realmente è: si tratta di un intervento, che può senz’altro essere ricalibrato e migliorato, che non si riferisce a migranti, non ‘apre i porti’ e non delegittima il sentimento nazionale, anzi: si tratta di un intervento che è destinato a migliorare le condizioni di decine di migliaia di giovanissimi – di fatto, italianissimi – che vivono una sorta di limbo fino ai diciotto anni, quando si apre la ‘finestra’ per richiedere la cittadinanza.
E intanto? Intanto vanno a scuola, con i nostri fratelli e i nostri figli, parlano il dialetto della regione di appartenenza e rischiano di trovarsi in situazioni paradossali, ai limiti della tollerabilità costituzionale. Come quella creatasi a Lodi, dove una sindaca leghista ha impedito a degli studenti stranieri della scuola primaria di accedere alle agevolazioni previste per il servizio di mensa, poiché i genitori non avevano tempestivamente presentato la documentazione necessaria. Si badi, stiamo parlando di garanzie connesse a principi basilari della Carta costituzionale, persi per un cavillo burocratico surrettiziamente utilizzato per raccogliere consensi.

Per sfuggire da questo genere di distorsioni, la via è obbligata: il bene della totalità, il bene dello Stato, non può essere raggiunto se non consolidando la componente dell’appartenenza. Solo nel sentirsi attivamente parte dello Stato – infatti – gli individui tendono a realizzare il proprio dovere e le proprie libertà. E questo non è un concetto nuovo, ma il principio cardine delle teorie sullo Stato dell’idealismo tedesco dei primi dell’Ottocento. Dunque, e qui il cerchio si chiude, non è possibile immaginare la realizzazione del bene collettivo e della crescita sociale, senza provvedere a far sentire a tutti i consociati il vincolo di appartenenza che li lega alla totalità statuale. In altre parole, avere paura di integrare non conduce a nulla. Al contrario, lavorare per l’integrazione – con le dovute cautele e costruttivamente, senza perdersi nelle tifoserie e rimettendo al centro la dimensione culturale – è uno strumento di unificazione che, piuttosto che una minaccia al patriottismo, potrebbe rivelarsi la chiave per ritrovare, a maggior ragione qui in Italia, quel valore che i nostri padri chiamavano humanitas.