Cinque viaggi letterari per l’estate Se siete pigri, poveri o Emilio Salgari

 

Ah, si muore. Una volta sono stato in uno di quei bar ghiacciati, che appena entri ti mettono i giubbini termici e ti danno liquori alla moda in bicchieri sottili. Una mia ex fidanzata deve averne anche le prove su supporto fotografico. Siamo entrati, fondamentalmente per sentire freddo, e siamo usciti. Costava quindici euro, l’ingresso. Era febbraio. Ecco, ad aver voglia di farle, queste cose – ammesso che quando le facevo ne avessi – le farei nel tempo giusto. Il bar di ghiaccio? Oggi, luglio, quaranta gradi. Un paio d’ore lì, con la caipirissima per fare scena, e cari saluti al programma che mi ero imposto, e cioè: leggere sul letto. A luglio, quaranta gradi, ultimo piano, stanza arredata in stile coloniale.

E’ il programma di quelli che, come me, hanno una fidanzata così entusiasta di viaggiare che sono tornati dalle vacanze prima che iniziassero le repliche di Montalbano. Un programma che prevede avvincenti evasioni salgariane, comodamente mutandati con la schiena alla testiera Hemnes. In cinque, piccole escursioni letterarie. A patto che non le consideriate letteratura da viaggio, ve le consiglio qui sotto.

  1. Nel segno della PecoraDance Dance Dance, Murakami Haruki

O Haruki Murakami, come vi piace. E’ un eterno candidato al Nobel. Pur di non premiare un autore tanto amato (e letto, e commerciale, và) prima o poi gli preferiranno un morto o un esordiente. In ogni caso, questi due libri hanno dentro una geografia per ingordi, ricca di aerei per […], panorami e stagioni. Il primo garantisce una trama, e cioè: pubblicitario divorziato e annoiato viene incaricato di trovare una pecora. Il secondo, come molti capolavori, no: allo stesso pubblicitario, sempre divorziato, succedono cose. E basta. Da Tokyo, una città maschile, musicale, bulimica dei suggerimenti occidentali (arrivati violentemente nei cinquanta, dopo secoli di una cultura imperiale riflessa all’infinito su se stessa) e appena appena capitalista, a Sapporo, praticamente Piemonte, sempre sotto la neve, sospesa in una congestione di tempi accavallati, magica, surreale. Il Giappone di Murakami non fa testo, è quasi come il Sudamerica di Amado, Garcia Marquez, Borges, Sabato: i morti ballano coi vivi, la gente bella ascende al cielo e tempo e spazio sono una formalità. Viaggio metafisico sulle tracce di bestiame da pascolo.

 

  1. L’odore dell’India, Pier Paolo Pasolini

Pasolini, anima rimpianta, era un entusiasta. Nel 1961 parte per l’India, insieme a Elsa Morante e Alberto Moravia. Appena arriva, in tarda serata, gli passa il sonno: trascina Moravia a passeggiare intorno al Taj Mahal, lo punzecchia con la sua irrequietezza, rimane solo, vaga nella notte, respira, appunto, l’odore dell’India. Fa dell’intero continente una descrizione commossa, eccitata, di una puntualità storica cortese, mai saccente. Sembra imparare la cultura, Pasolini, mentre la guarda, la assimila, la crea. S’innamora visceralmente, come gli accade per tutte le cose naturalmente viscerali. Sul viaggio realizzerà, oltre al reportage, un documentario dal titolo Appunti per un film sull’India. Era il ’97, doveva farne un film che non realizzò mai. Bene così, forse, per l’unicità letteraria. L’odore dell’India è, curiosamente, qualcosa che Pasolini sente senza descrivere. Qualcosa che arriva anche a chi legge, senza che ne legga.

  1. Danubio, Claudio Magris

Un esercizio opposto a quello di Pasolini, per un uomo – di tempi diversi – profondamente diverso da Pasolini. Pier Paolo è un artista emotivo di acuta intelligenza, che giustifica storicamente le sue ispirazioni civili. Magris è uno studioso che scrive come facesse arte. Danubio è un libro fenomenale per menti presuntuose, ricco di riferimenti inafferrabili e poetica esperienziale. Ha un incipit terra terra (si parla di assessori, finanziamenti, “iniziative”) che inganna. Se descrive Budapest o Vienna non parla (quasi) mai di ristoranti, splendide vedute, luoghi d’interesse, ma riporta pensieri suoi, citando qua e là D’Annunzio, Goethe, Haydn, Kafka, Liszt. Scrive della capitale magiara, che considera la città più bella del Danubio, quanto le giovi l’imitare Vienna, risultandole superiore: ‹‹Forse anche per questo assomiglia alla poesia nell’accezione platonica, il suo paesaggio suggerisce, più che l’arte, il senso dell’arte››.

  1. Marcovaldo, Italo Calvino

Questa piccola fesseria ad opera di un altro italiano esagerato ha un sottotitolo: Le stagioni in città. Non si va da nessuna parte, quindi, perché la città è quella e bisogna raccontarla senza allontanarsene troppo. Il protagonista è un operaio davvero qualunque, con una famiglia da prateria e una bancarotta incipiente. Si chiama Marcovaldo, che sembra roba carolingia, ma non è un eroe. A differenza di Luigi delle Bicocche non ha nemmeno molta coscienza di classe. Però è un viaggiatore, un turista residente. Viaggia col tram, a piedi, giusto un poco fuori porta. Vive avventure bellissime, spaventose, difficili, dispendiose, velenose, rumorose, soddisfacenti solo a volte. Ci insegna che viaggiare senza muoversi è un rischio obbligatorio che costa solo maggiore attenzione e curiosità. Anche se vi sembra, non è roba per bambini. Non soltanto, almeno.

  1. L’amica geniale, Elena Ferrante

Dell’Amica Geniale avrete sentito parlare tutti. Lo leggono in America, Elena Ferrante è uno pseudonimo, chi sarà mai, l’hanno candidato allo Strega, è arrivato terzo, sono quattro libri lunghetti eccetera. E’ una saga che parla di due amiche, Lila ed Elena (ma io preferisco Lenù), che hanno destini diversi fin dalle prime dieci pagine, una geniale davvero l’altra per ruolo sociale, in una sfida tra intelletto e cultura, fra arte e professionalizzazione dell’arte, tra verità e voglia di rassicurazione. Tralasciando il fatto che Lila è probabilmente i miglior personaggio letterario italiano dai tempi del Principe di Salina, e che il romanzo in sé non è difficile da leggere, anzi fin troppo facile, ai limiti della chick-lit (se solo l’autore non fosse un sacerdote della sottrazione stilistica), la saga dell’amica geniale è un’opera monumentale sull’Italia vista da Napoli e su Napoli vista all’Italia. Il terzo volume, Storia di chi fugge e di chi resta, traccia percorsi esasperanti di andate e ritorni, di città belle e soffocanti, della Milano culturale, della Firenze universitaria, della Torino matura, della Napoli totale. Né Gomorra e né Antonella Cilento. Leggetelo, più che per quello che c’è (tanto) per quello che manca: Roma, viziatissima, e la firma dell’autore.

Che come avrete capito sono io.

No, non è vero.