A casa tutto bene, il disincanto e la schiettezza di Brunori Sas

A distanza di tre anni da “Vol. 3 – Il Cammino di Santiago in taxi”, album che chiudeva chiuso la trilogia avviata nel 2009 da “Vol. 1”, Brunori Sas (al secolo Dario Brunori) è tornato con A casa tutto bene.
Registrato in un’antica masseria di San Marco Argentano, comune del cosentino di settemila anime, si tratta di un album che incuriosisce già dalla copertina, caratterizzata una grafica minimale che incornicia il simbolo per eccellenza della casa, un attaccapanni. Il disco, musicalmente più complesso rispetto ai precedenti, fatto di una scrittura italiana e sonorità spesso distanti dal bel Paese, si allontana dall’amore e si concentra su una sensazione diversa: la paura, quella dell’ignoto oppure quella dei piccoli contrattempi quotidiani.

Prodigarsi in  apprezzamenti per questo album sarebbe facile, soprattutto per una fan di vecchia data, e lo hanno già fatto in tanti. Mi accoderò alla scia di lodatori perché A casa tutto bene è un mix perfetto di malinconie, istantanee coperte da una patina di malinconia che poco ha a che fare con Instagram perché squisitamente genuina, riflessioni che già dal primo ascolto – ne sono certa – nascono da riflessioni profonde e disillusioni che è difficile mandar giù se non accompagnate da un buon sorso di Amaro del Capo.

Fieramente indie, in dodici tracce Dario Brunori ha provato a dar voce a ciò che affolla la sua mente, da Gaber a Bauman, dal lupo della Sila al piccione del Duomo di Milano, dalla pecora al maiale, dalla provincia ferma agli anni ’80 alla metropoli che riesce ancora ad affascinare. Ha deciso di indossare un mantello, nero magari, e provare a salvare un mondo che –lui ne è sicuro – può essere migliore di così. E ha cantato la verità spicciola eppure potentissima per cui ciò che fa paura è l’idea di scomparire, l’idea stessa della fine.

Un ascolto più approfondito fa emergere una sorta di fil rouge con “Vol.2 – Poveri Cristi”: se allora l’attenzione era incentrata sulla gente in difficoltà che tuttavia prova a farcela, questa volta il cantautore calabrese ha scavato ancora più a fondo, mettendo in discussione innanzitutto se stesso, arrivando alle ragioni profonde dell’attrito tra sé e il mondo esterno. Affrontando il timore di una scrittura così intima, Dario Brunori ha tirato fuori dal cilindro una poetica quasi da “neorealismo italiano” o, piuttosto, il coraggio di andare dritto al punto, senza dover per forza scomodare l’ironia o l’arguzia, e ad una diffusa poetica che risuona spesso ridondante ha contrapposto la semplice schiettezza dei fatti. Che sia la descrizione di un applauso all’atterraggio dell’aereo oppure la narrazione della disillusione generale, egli fa la cosa che gli riesce meglio: prende consapevolezza di sé e della sua epoca e ne fa un disco che potrebbe consacrarlo come uno dei migliori narratori di questa generazione. Se “La verità” (primo singolo estratto, NdA) ricorda le atmosfere degregoriane e “Sabato bestiale” richiama Fossati, con “L’uomo nero” abbiamo la conferma di un album che si occupa del presente, senza retorica, intriso di autenticità.
Terminato il ciclo “All’università tutto bene – Brunori incontra gli studenti”, prenderà il via il 24 febbraio il nuovo tour, che toccherà le principali città italiane e fa già registrare repliche e sold out. Come quello di Cosenza, città che lo ha visto crescere negli anni e ha fatto delle sue canzoni un baluardo. Campanilismo? No, direi piuttosto sincero affetto nei confronti di un artista che canta la sua terra, dal mare di Guardia Piemontese all’aeroporto di Lamezia Terme, senza fronzoli e senza faziosità, ma con la schiettezza e la trasparenza di chi ha imparato ad amare con il Sud, accettandone le difficoltà e non rassegnandosi mai. E dal Sud parte, ma al Sud ritorna.

Non resta che ascoltare e cantare a squarciagola questo album, antidoto disincantato contro una tristezza che  è difficile toccare.