Post pandemia, il punto di vista dell’esperto

Intervista a Giovanni Matragrano, psicologo e psicodiagnosta

È chiaro a tutti quanto la diffusione del Covid-19 abbia modificato le nostre vite, ma quali sono stati gli aspetti più colpiti? Lo scopriamo insieme a Giovanni Matragrano, Psicologo-Psicodiagnosta che, grazie alla sua formazione clinica, ma anche al fatto che si occupa di ambiti legati al mondo psico-scientifico, ci spiega come stiamo reagendo a questa situazione globale.

Come credi sia stata percepita a livello psicologico la pandemia? Ha avuto un impatto più o meno grave delle previsioni secondo te?

C’è da fare prima una specifica: se ci pensi bene la pandemia è stata prima di tutto una pandemia psicologica. Nessuno conosceva il virus, tuttavia, tutti sono venuti a contatto con le conseguenze che rappresenta. La pandemia è stata impattante per la psiche delle persone perché ci siamo ritrovati a dover “limitare la nostra vita” per via di un avversario che non conoscevamo. Quando è stato promosso a virus-minaccia per l’uomo dall’OMS, per il Covid non erano state ancora prese in considerazione contromisure sociali, propagandistiche o di sorta. Per intenderci, quando c’è stata la mucca pazza la copertura mediatica in merito e le campagne per agevolare il combattere dell’epidemia furono di dimensioni maggiori, nonostante i mezzi a nostra disposizione erano sicuramente più pochi e più obsoleti».

Quali aspetti sono stati modificati, dunque, oltre a quelli di natura sanitaria-preventiva?

«Le vere armi del virus sono altre. Finora abbiamo temuto che la conseguenza più grande fosse quella sanitaria, eppure, ora che il Covid è leggermente in remissione grazie ai vaccini e alla prevenzione, cominciamo a notare altri aspetti: la paura sociale legata alle situazioni che generano ansia e/o panico, che principalmente attecchisce con i giovani; la diffidenza nei confronti della scienza; l’inefficienza generale dei sistemi di emergenza di molte nazioni. Vi è stata un’incapacità indecorosa nel creare benessere collettivo, data dal fatto che molte nazioni (tra cui l’Italia) si sono concentrate finora sullo sviluppo della burocrazia ignorando quello della salute mentale. A prova di ciò vi è l’innegabile situazione che sta stravolgendo l’Europa: l’istituzione di una salute mentale pubblica, proprio al pari del sistema sanitario nazionale».

Che impatto ha avuto la pandemia per quanto riguarda giovani e formazione, la percezione degli altri e l’ambito sociale in generale?

«Purtroppo non basta “provare a far finta che il Covid non ci abbia mai colpito” per ritornare a vivere come prima. La pandemia ha cambiato tutto, soprattutto il modo in cui ci relazioniamo con gli altri. Intrinsecamente, a causa della pandemia, siamo più portati a fidarci di meno; a chiederci “chissà cosa avrà fatto, dove sarà stato/a e con chi, sarà mica pericoloso/a?”. Siamo più rigidi. Ho seguito casi di ragazzi che hanno smesso di andare a scuola, appoggiati dai genitori, perché “è pericoloso”, oppure persone adulte che non vanno dal medico specialista perché “potrei prendere il covid”. La normalità è esistita ed esiste tuttora, ma vi è quella prima del virus e quella che stiamo per imparare a vivere. L’ avvento del covid ci ha fatto riflettere su un punto fondamentale: perché vivere come se fossimo ancora agli inizi del nuovo millennio, quando non lo siamo più? Il virus ci ha aperto gli occhi sulle opportunità e sulle tecniche che l’essere umano ha in quasi ogni ambito della vita, in termini di convenienza, efficacia ed efficienza. Avevamo le idee giuste per mettere a punto una cura per l’Alzheimer, ma abbiamo aspettato che l’esigenza ci portasse a brevettare un vaccino in 6 mesi per capire che era necessario agire sull’mRNA anche nelle malattie degenerative ereditarie. Avevamo le idee giuste per un’istruzione più rapida e sicura, ma abbiamo aspettato che l’esigenza ci portasse a creare un sistema digitale di registrazioni e somministrazioni scolastiche per capire che l’istruzione può giovare della tecnologia».

A proposito di istruzione e apprendimento, sei stato candidato per un dottorato di ricerca in Health Promotion e Cognitive Science in materia di istruzione e formazione digitale: cosa puoi dirci?

«Lo scopo del dottorato è quello di promuovere una migliore qualità della vita, in termini di benessere e vivibilità generale. Il fulcro è il “come noi percepiamo la vivibilità”, ergo, le scienze cognitive. Il metro di misura, così come la soluzione, è all’interno dell’io inteso come soggetto giudicante e non da ricercarsi unicamente nell’ambiente fisico d’apprendimento. Per raggiungere lo scopo di apprendere e formare in modo più conveniente, si stanno sviluppano metodi che si spera un giorno rivoluzioneranno i mezzi per la formazione e l’istruzione. Magari stavolta prima che l’emergenza avvenga».

Articolo pubblicato su Il Quotidiano del Sud – L’Altravoce dei ventenni