Cinquant’anni circa di storia, lotte sociali e di studi per garantire l’accesso all’interruzione di gravidanza ed oggi arretriamo drasticamente nel passato lasciando spazio a un futuro di gravi conseguenze economiche ed etiche per la salute delle famiglie e delle donne.
Con 6 voti a favore e 3 contrari la Corte Suprema degli USA abolisce il diritto all’aborto, stabilendo che “l’autorità di regolare l’aborto torna al popolo ed ai rappresentanti eletti”. Di fatto è stata annullata la sentenza Roe v. Wade del 1973 con la quale si proteggeva l’accesso alla pratica abortiva, consentita fino al momento in cui il feto può vivere al di fuori dell’utero – fissato a 22 o 24 settimane di gravidanza. Ora, saranno i singoli Stati ad applicare liberamente le leggi federali in materia: primo stop alla ‘Trigger Law’ in Louisiana. Neanche una settimana dalla sentenza e già la nuova disposizione sull’aborto diviene vigente. Dallo scorso venerdì negli USA si è alzato il polverone delle proteste. È esplosa la rabbia che dalla città di New York si è trasferita in ogni singolo stato per poi attraversare l’oceano e giungere fino da noi, in Italia.
Non di meglio, quando affrontiamo la tematica del diritto ad abortire in Italia ci riferiamo alla legge 194, entrata in vigore il 22 maggio del 1978 che consente alle donne di ricorrere all’interruzione volontaria di gravidanza (Ivg, in sigla) in una struttura pubblica nei primi 90 giorni di gestazione, termine oltre il quale si può ancora fare ricorso ma solo per ragioni terapeutiche. Qualche anno in meno ma 44 anni dopo l’adozione della legge, ancora anche in Italia, resta da garantire nell’effettivo. Non sempre è consentito il pieno accesso all’interruzione volontaria di gravidanza e, tra l’altro, è frequente nel nostro paese dover affrontare l’ostruzionismo dell’arretratezza culturale\sociale che porta a trattare tali argomentazioni come pesanti taboo ed inoltre a dimenarsi dinnanzi a medici e strutture sanitarie che respingono le richieste delle donne per portate a termine una gravidanza indesiderata. Tutto ciò esacerbato dalla questione mediatica dirompente che predispone il soggetto femminile e con esso tutto l’apparato medico assistenziale a una pressione psicologica insostenibile, più spesso risolta con ‘viaggi della speranza’ da una regione all’altra piuttosto che oltre frontiera laddove è liberamente concesso di scegliere per la propria vita.
A livello globale, però, i ricercatori della sanità pubblica e gli economi si interrogano riguardo gli esiti della decisione e soprattutto sono preoccupati dei danni che questa presa di posizione possa portare alla generale condizione socioeconomica. In questi anni gli studi hanno dimostrato che, limitare l’accesso all’aborto, abbia effetti negativi sulle donne incinte, le quali con maggiore frequenza corrono rischi di problemi di salute fisica e mentale proprio in conseguenza all’esito negativo della richiesta. Questo, ovviamente, ha ricadute sulla salute del feto e quindi sul prosieguo della vita del bambino. Dati effettivi sono stati raccolti nel 2013 in Texas quando è stata approvata una legge che limita i servizi di aborto e che ha avuto la diretta ripercussione di far diminuire del 13 per centro il tasso di abortività nello stato. Prove solide a conferma del fatto che, una parte significativa delle donne che desiderano accedere ai servizi abortivi, ma gli sono negati, troveranno modi alternativi, anche pericolosi, per interrompere la gravidanza.
Uno degli studi più completi che documenta dettagliatamente per cinque anni gli effetti dell’accesso all’aborto è il Tunaway Study eseguito su 1000 statunitensi intente ad abortire ma a cui è stata negata la possibilità di farlo. Tali donne, come dimostra lo studio, proseguendo con la gravidanza accentuano la loro condizione di vita in povertà: più spesso non hanno abbastanza denaro per coprire le spese di sostenimento di un figlio, nonché sempre le stesse gravide, si riporta, abbiano maggiori difficoltà in ambiti quali istruzione, lavoro e salute mentale e fisica. Quelle donne a cui viene negato l’aborto, riporta il Turnaway Study, vivono l’esperienza del parto in maniera consapevole al punto di non riuscire a dare poi in adozione il bambino. Questo significa che tali famiglie sono costrette ad avere un figlio quando non è il momento giusto e quindi ad accentuare la povertà, in situazioni già disastrate, dando un impatto profondo soprattutto in quelle comunità agli estremi delle società che non vedono riconosciuto alcun diritto.
Considerato l’emendamento e il conseguente riscontro sociale nasce spontaneo chiedersi: quante donne moriranno di aborto? Viste le innumerevoli fasce meno abbienti, le nuove generazioni e quelle donne che già vivono di stenti e che hanno famiglia, l’interruzione di gravidanza assumerà sempre più la direzione di essere considerata reato e di conseguenza essere praticata in cliniche non specializzate e in strutture non adeguate, quindi, in modo illegale proprio come accadeva fino a qualche decennio fa. Si apre perciò il grande danno di mettere a rischio le vite di migliaia di donne. Riportando le statistiche dell’Abortion Surveillance si tratta di più di 600.000 all’anno di donne e occorre sottolineare che vista la difficoltà di reperire i numeri ufficiali, i dati sono sempre da considerarsi sottostimati. Balza all’occhio l’analisi della OMG – Organizzazione Mondiale della Sanità – che riporta una stima tra il 4.7 % e il 13,2% delle morti connesse alle procedure abortive illegali ed alle loro complicanze. Non di meno, il caso aborto degli USA rimarca il divario sociale e condanna chi è economicamente svantaggiano da non potersi concedere il lusso dei viaggi e delle spese verso quei paesi in cui è ancora lecito praticare l’aborto.
Riflettiamo: neghiamo l’aborto e consegniamo migliaia di donne alla morte o a una degenere vita? Questo è quanto ha scelto la Corte Suprema e tutti i quali non garantiscono un diritto fondamentale per la vita. Scelte dettate a priori che hanno l’ardire di intervenire sul corpo altrui e che rivelano il conto di politiche del tutto bigotte sul tema vita.
Articolo pubblicato su Il Quotidiano del Sud – L’Altravoce dei ventenni
Classe ‘96, laureata in Biologia all’UniCAL, è rappresentante di dipartimento. Sognatrice dalla vena poetica, racconta il mondo con fotografie e testi. Ama perdersi nei tramonti, cieli immensi: lì dove è lecito allontanarsi dalla realtà.