Sanremo visto dagli USA

Chi vive all’estero si trova a sperimentare d’improvviso un nuovo rapporto con il proprio paese d’origine. È qualcosa di più complesso del mero significato del “sentirsi” italiani: è piuttosto lo scendere a patti con chi si è veramente una volta inseriti, in via definitiva e non da turisti, in un contesto estraneo.

Se dapprima tutto sembra scintillante, con quell’accumulo di “prime volte” da film, non fosse altro per essere lì dove quei film furono effettivamente girati, dopo un po’ la sbornia passa. In un momento che collocherei temporalmente intorno ai primi ritorni in Italia da “straniero”, si comincia progressivamente a riapprezzare tutte le cose che davi scontate del tuo paese. Come, ad esempio, il buon cibo a prezzi competitivi, la spontanea propensione alla socialità simboleggiata dalle piazze, etc. Queste montagne russe finiscono per normalizzarsi con il tempo. Ti accorgi che è irrealistico pensare che esista un posto perfetto, che ogni Nazione ha peculiarità derivanti da un percorso storico e sociale unico e che è compito di chi vive da expat non abbandonarsi a superficiali campanilismi, ma essere sempre attento a soppesare ogni aspetto con oggettività e razionalità.

Un momento topico di questo mio percorso di normalizzazione è rappresentato dalla recente manifestazione nota con il nome di Festival di Sanremo. Ammetto di aver del tutto saltato l’edizione dell’anno scorso, interrompendo una più che onorevole striscia positiva. Non fu, a dire il vero, dovuto a scarso interesse, quanto, molto banalmente, a un fuso orario sfavorevole, che vedeva la kermesse cominciare alle mie 14:30, in pieno orario lavorativo.

Quest’anno, tuttavia, complice anche una nuova configurazione professionale, ho finalmente avuto modo di recuperare. E, se devo dirla tutta, il fuso orario ha giocato a mio clamoroso favore, dato che i consueti assonnati ultimi momenti di puntata tipici dell’1:30-2:00 di notte in Italia, da me andavano in onda alle comode 19:30-20:00.

Complice forse anche l’anno di assenza, che mi ha permesso di evitarne la fruizione in uno dei momenti di picco delle mie montagne russe da expat, ho finalmente goduto di un Festival che mettesse in luce tutta la “maturità” con cui riesco adesso a vedere la mia realtà d’origine rispetto alla nuova, nella quale sono inserito da ormai un paio d’anni. E ho notato molte cose interessanti.

In primo luogo, mi soffermerei sui temi trattati. Si parla ancora molto di legalizzazione della Marijuana, che qui invece è ormai legale in moltissimi Stati. E quelli che resistono, sono destinati nel medio periodo a capitolare. Sì – mi si dirà – ma negli US si parla molto, ad esempio, di aborto. Vero, ma se ne parla solo perché una fine interpretazione costituzionale ha fatto venire meno la tutela federale del diritto, lasciando ai singoli stati l’onere di legiferare. Risultato? Gli Stati legiferano, e anche quelli più conservatori (come la Florida) settano il limite a 15 settimane, ergo più largo di qualsiasi legge europea. Insomma, è un tema, forse uno spauracchio, ma nel complesso abbastanza ingiustificato.

Mi ha stupito molto, poi, non tanto la politicizzazione dell’evento, quanto piuttosto la pretesa che non lo sia. Qui negli US è noto che eventi di grossa portata come gli Oscar o i Grammy siano marcatamente di sinistra. E lo sono, se vogliamo, anche per una certa propensione culturale dell’arte in generale. I Repubblicani possono criticare nel merito, ma non si sognerebbero mai di pensare di cambiarne l’indirizzo. Mi ha infine sorpreso, molto in positivo, l’estrema cultura musicale alla base dell’intera manifestazione. È un parterre anagraficamente molto equilibrato quello che si è esibito, con molti giovani che hanno portato sul palco cose buone o meno buone. Sicuramente nuovi stili. Tutti però, hanno reso omaggio alla grande tradizione della musica italiana, cantando i brani che l’hanno resa grande. In una parola, si chiama cultura. Chiunque in Italia, anche i più giovani, conoscono le canzoni che sono state proposte nei vari segmenti intermedi. Questo invece non sarebbe successo negli Stati Uniti, vittime di un perenne “presentismo”, dove l’innovazione trova a volte ridondante comprenderne e apprezzarne le radici e la storia da cui proviene.

Due mondi diversi, insomma. Bellissimi entrambi a loro modo. La chiave però, resta sempre quella di trovare in se stessi la capacità di apprezzarli ed amarli entrambi.


Articolo pubblicato su Il Quotidiano del Sud – L’Altravoce dei ventenni