Ammalarsi di sé: il racconto della sofferenza umana da dietro uno schermo

Tra gli atteggiamenti del quotidiano, che ricorderemo per aver caratterizzato il 2023, c’è la nuova forma cartesiana della sensibilità: “Soffro, dunque sono”. La patologizzazione della esperienza umana, messa in vetrina sui social network come engagement per attirare attenzione, ha portato molti giovani ad ammalarsi davvero di sé stessi.


Se è vero che gli anni post pandemici, le preoccupazioni per il conflitto Russo-Ucraino, le difficoltà a progettare un futuro, abbiano fatto incrementare i casi di soggetti affetti da disturbi mentali o che sentono minato il proprio benessere psicologico, è anche vero che si è fatta avanti la tendenza a percepire gli stati di ansia, tristezza e disorientamento come sintomi definitivi per la diagnosi – autoprodotta – di insanità mentale. Ci si ammala di una percezione errata dettata dal condizionamento volontario e indotto che porta a ritenere emozioni perfettamente normali e appartenenti all’esperienza umana come patologiche. Questo perché non si conosce bene il modo attraverso cui agire. Come conferma anche la scienza, tristezza ed alti livelli di stress nella società attuale non sono altro che regolari esternazioni dei ritmi quotidiani. Persino, si ritiene che questi coinvolgimenti dai tratti patologici possano essere reazioni benefiche adattatesi al progredire delle società per favorire l’assunzione di comportamenti utili e funzionali.


Ma i protagonisti, ovvero le vittime ideali, di questa tendenza ostentano patologie promuovendo stati fisici e psichici segnati dall’impronta dei traumi e della sofferenza. Lo testimoniano le scene, le foto ed i contenuti postati sui social col fine unico di monopolizzare l’attenzione altrui. Altrettanto spesso, simulano una rara patologia senza cura quale l’ansia sempre per calamitare intorno a sé lo sguardo, sperando di diventare così famosi.


Una trasformazione della percezione e dell’immaginario della vittima afflitta e affetta da gravi condizioni che, stando ai dati raccolti da Telefono Azzurro nell’ultimo anno, riguardano la salute mentale del 21 percento dei giovani italiani. La stessa percentuale che dichiara di sentirsi a disagio e di provare vergogna a chiedere aiuto. La soluzione più semplice appare dunque quella di manifestarsi tramite i social, trincerandosi ed offrendosi in pasto alle discussioni, ai commenti e consigli, per quanto possano essere definiti tali, di una popolazione sconosciuta di follower. Per alcuni, questo strano coming out, sembra essere un modo per acquisire autorevolezza, successo e virtù morale.
Mostrare, condividere e rendere patologiche le emozioni negative per dimostrare che sono parte della nostra vita. Questo il messaggio che le vittime ideali e reali vogliono lanciare. Il linguaggio psicologico, l’incremento del malessere psico-emotivo non siano più rappresentative di tabù ma siano riconoscibili e contraddistinguano la cultura e società attuali come testimonianza delle condizioni con cui molte persone si trovano a convivere. Non mostrarsi, quindi, sconfitti dalle ansie e dai problemi, incamerando all’interno del proprio corpo delle patologie che più frequentemente si ha la difficoltà ad affrontare ma mettersi in discussione ed a contatto con la complessità.

A mettere in scena questo modo di sperimentare le emozioni negative è Sick of Myself. Il film del registra norvegese Kristoffer Borgli racconta la storia della protagonista Signe, un personaggio che racchiude in sé tutti gli atteggiamenti derivanti dall’ossessione per le bugie e il vittimismo. Modalità di esternare i propri sentimenti che le procura la fama e suscita la compassione delle persone che la circondano al punto di attrarle tutte verso di sé. Ogni occasione, con il fidanzato, l’uscita con le amiche, quotidianamente a lavoro, diventano scene in cui Signe si mette al centro dell’attenzione in una ossessiva ostentazione del malessere. Un desiderio forte, quello di non fare perdere il focus sulla sua persona, che la porta persino ad assumere dei pericolosi ansiolitici in modo da ammalarsi per davvero e sperimentare i reali effetti collaterali di una delle più insidiose patologie quale l’ansia.


Da un lato, quindi, si è assunta maggiore consapevolezza su cosa siano i disturbi mentali e si sta pian piano superando lo stigma che li riguarda, ma dall’altro sembra che si sia sempre più ossessionati dall’idea di dover dare una etichetta a tutto, alla propria personalità e quella altrui.

Articolo pubblicato su Il Quotidiano del Sud – L’Altravoce dei ventenni