“Quanto più dura è l’oppressione, tanto più diffusa è tra gli oppressi la disponibilità a collaborare con il potere”: così scriveva Primo Levi nel 1986 nel terzo capitolo de I sommersi e i salvati.
Ricorre oggi il trentatreesimo anniversario della sua morte, avvenuta all’età di 68 anni. Definire semplicemente Primo Levi come uno scrittore può sembrare riduttivo per quello che quest’uomo è stato. Laureato in chimica con lode nel 1941, partigiano antifascista, venne deportato ad Auschwitz nel 1944, in quanto discendente da famiglia ebrea, e qui gli venne negata finanche la possibilità di poter usufruire dei laboratori universitari e discutere la sua tesi anche in fisica. Superstite del campo di concentramento, liberato nel 1945, ha raccontato in diverse opere, con estrema fermezza e lucidità, la barbarie e la bruttura di quanto accaduto nell’inferno di Auschwitz.
I sommersi e i salvati, sua ultima opera fortemente introspettiva, è ancora una volta un monito alla memoria verso le nuove generazioni, ma è anche una profonda riflessione sulla natura dell’uomo. Ritroviamo qui un Levi diverso che pone l’accento sulle due categorie di prigionieri presenti nel campo di concentramento, i sommersi ed i salvati. Sommerso è chi non è riuscito a salvarsi, chi non ha avuto il privilegio di poter testimoniare quanto accadutogli, chi ha dovuto soccombere alla follia umana ed in nome di essa e della “soluzione finale” è rientrato fra i 6 milioni di persone sterminate nei lager. I salvati invece sono le persone sopravvissute ai campi di concentramento, coloro che hanno fatto ritorno alle loro case, coloro che sono stati considerati forti all’interno del campo di concentramento e che, secondo una grottesca spiegazione delle leggi dell’Olocausto, si dimostravano migliori e quindi degni di proseguire la loro vita.
Levi avverte quasi un senso di colpa per essere risultato tra i salvati, per non essere riuscito a far sì che anche suoi compagni potessero rientrarvi, per non aver potuto aiutare tutti. Lui definisce i salvati come i peggiori, dal punto di vista dell’integrità morale, dell’altruismo, del poter volere il bene di tutti. Egli racconta come, per salvarsi nel campo e dal campo, fosse necessario entrare a far parte di quella che lui definisce la zona grigia, vale a dire la zona in cui le regole dell’onestà e dell’integrità vengono meno, dove prevalgono le leggi della corruzione. Chi riusciva a scampare al campo era con molta probabilità una spia, un collaboratore della zona grigia, qualcuno che pur di salvare sé stesso, aveva tradito qualcun altro o aveva rinunciato ad una parte del suo essere. È significativo il passo in cui Primo Levi afferma di sentirsi innocente ma pur sempre “intruppato” tra i salvati e, quindi, nello status di doversi giustificare, perennemente, per qualcosa, non solo davanti agli occhi degli altri, ma soprattutto davanti allo specchio. Questa è la condizione che molti scampati al lager si trovarono a vivere dopo la liberazione ad opera dell’Armata Rossa e che culminò con il suicidio di molti.
Questa situazione, psicologicamente drammatica, vissuta da chi è sopravvissuto al più grande crimine della storia dell’umanità viene splendidamente descritta all’interno del terzo capitolo del libro denominato Vergogna. Primo Levi offre una stupenda definizione della vergogna, sentimento il cui significato oggi molti sembrano aver dimenticato o sembrano riuscire a non provare. Lui la descrive come la sensazione “che il giusto prova di fronte all’offesa altrui, e che gli rimorde che esista”, solo quindi chi è sensibile riesce a provare vergogna verso chi subisce un’offesa e non fa niente per difenderlo o per evitargliela.
Primo Levi sembra indicare un labile confine tra la vergogna per non aver fatto nulla e la connivenza con il potere che porta spesso l’uomo a non intervenire a difesa di un suo simile che subisce un sopruso o un’angheria. Secondo l’autore piemontese a salvarsi sono stati i peggiori, i migliori sono morti tutti nel campo di concentramento. È spontaneo, a questo punto chiedersi chi può essere considerato migliore o peggiore e cosa nella vita si può considerare giusto o sbagliato. Primo Levi seppe indicare la zona grigia, nella quale si sono saputi collocare i salvati, coloro che sono diventati Kapò, all’interno del campo, o che addirittura sono stati prescelti per sovrintendere alle camere a gas, come la zona della vergogna. I salvati sono riusciti molto spesso a corrompere il nemico, a far sì che il nemico fosse tale, ma un po’ di meno rispetto quanto lo era per gli altri, ed il nemico scelse fra le sue vittime quelle che, pur vivendo il dramma della spersonalizzazione della persona poterono quantomeno salvare la vita.
Il dramma psicologico vissuto, dunque, da Levi è tanto distante rispetto a quello che ci troviamo molto spesso a dover affrontare quando per aver un qualcosa che ci spetta di diritto siamo obbligati a dover piegare la testa ed a rinunciare ad una parte di noi, ad alcune delle nostre convinzioni? Nel momento in cui la prospettiva di una vita migliore, che pur è nostra di diritto, ci viene offerta in cambio della rinuncia a qualcosa, o talvolta, in cambio di un voto, siamo tutti capaci di alzare la schiena e portare avanti un ideale o per necessità di cose dobbiamo, pur controvoglia, accettare? Qui viene fuori il momento più duro e cupo dell’esistenza di ognuno, il momento del compromesso. Quando il nostro sacrosanto diritto alla felicità è rimesso in mano altrui ci troviamo talvolta a dover scegliere tra l’onestà morale ed intellettuale, la fedeltà a determinati principi o criteri di vita e la possibilità di poter ottenere qualcosa. Questo qualcosa era la vita nel libro di Primo Levi, ma può essere un posto di lavoro o qualsiasi altro tipo di diritto, che ci è negato dalla contingente situazione, ma che in realtà ci spetta. Così come la vita era un diritto dei rinchiusi nel lager. E quanto distano dagli oppressori nazisti, le persone che ci pongono di fronte a tali scelte? Una parola spesso abusata è la meritocrazia, ma in una società in cui la corruzione sembra imperare e le zone grigie del compromesso clientelare si trovano dovunque, esiste davvero il giusto spazio per i cosiddetti migliori o più meritevoli, di emergere?
Questo dramma sembra abbattersi su molti giovani che, pur meritando, si trovano costretti a dover rinunciare a molto di quello in cui hanno creduto pur di avere un posto di lavoro e dunque una speranza di vita. Ma chi accettando le “regole” di chi detiene il potere riesce ad intrupparsi tra i salvati non diventa egli stesso un sommerso? I sommersi del libro hanno perso la vita, ma chi sceglie di adeguarsi al potere in cambio di un suo diritto non rinuncia a sé stesso?
La demolizione dell’uomo, di cui Primo Levi parla anche nella sua opera più famosa Se questo è un uomo, parte proprio dalla rinuncia all’identità. I tedeschi la realizzarono partendo dall’attribuzione di un numero marchiato sulla pelle ad identificare i loro prigionieri, ma spesso chi ci porta a rinunciare ad un sogno in cambio di una vita economicamente migliore, tenta, di fatto, di toglierci una parte di noi stessi. Non ci si discosta di molto da quanto fatto dagli ufficiali nazisti. Ecco dunque, che finché la gente continua a piegare la testa pur di migliorare la propria piccola condizione a discapito della bellezza di un’idea, non vi sarà differenza tra sommersi e salvati.
Crediti immagine: illibraio.it
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