La comunicazione ai tempi del nuovo coronavirus

I pericoli dell’infodemia e le azioni da intraprendere per una nuova comunicazione

L’emergenza sanitaria e l’isolamento preventivo cui siamo sottoposti per prevenire la diffusione del nuovo coronavirus hanno cambiato le nostre abitudini, i nostri piccoli riti quotidiani, costringendoci a osservare il mondo dalle finestre, dagli schermi dei televisori, dei pc oppure degli smartphone. I giornalisti e gli addetti all’informazione tutta sono chiamati a uno sforzo titanico: comunicare l’evoluzione della pandemia in maniera corretta, fornendo dati verificati e aggiornati, utilizzando toni che non sfocino nell’allarmismo e, al tempo stesso, non sminuiscano quanto sta accadendo. Come sostiene l’AMA Journal of Ethics, il ruolo del giornalismo è cruciale e la crisi in atto non riguarda solo la salute pubblica, ma anche l’informazione. La situazione attuale può infatti essere associata alla cosiddetta infodemia, la circolazione cioè di una quantità eccessiva di informazioni, talvolta non vagliate con accuratezza, che rendono difficile orientarsi su un determinato argomento per la difficoltà di individuare fonti affidabili. Le notizie oggi si diffondono in modo rapido, su mezzi diversi tra loro, marcando una differenza epocale rispetto alle emergenze globali precedenti ma pregiudicando al tempo stesso la possibilità di trasmettere informazioni e – soprattutto – istruzioni chiare, univoche, controllate. La COVID-19 porta infatti con sé una sovrabbondanza di informazioni, spesso inserite nella cornice retorica del linguaggio bellico. Se è vero che le parole che scegliamo per descrivere i fenomeni sono uno strumento fondamentale per la loro comprensione – e per la loro gestione – l’abuso della metaforica bellica va ormai ben oltre la goffaggine lessicale. Paragonare gli ospedali alle trincee, parlare di economia di guerra oppure fronte del virus, assistere alla lettura di bollettini di guerra (le conferenze stampa della Protezione Civile, ndr), altro non fa che confondere lettori e ascoltatori, allontanandoli dall’idea di vicinanza e solidarietà di cui abbiamo invece un disperato bisogno.

Mettere sullo stesso piano due fenomeni come un’epidemia e una guerra è sbagliato per due motivi: la loro essenza è diversa e prevedono rispettivamente diverse forme di prevenzione e contrasto.
Cosa porta allora all’impiego di metafore belliche, quasi fosse una prassi consolidato?
Può darsi che alla base di tutto ciò ci sia il radicamento profondo dell’immaginario di guerra nell’inconscio collettivo, oppure, come sostiene il sociologo Fabrizio Battistelli, «le politiche strategico-militari concretizzano la dicotomia amico/nemico, teorizzata dal pensiero conservatore ma di fatto condivisa da tutti, come la quintessenza del politico». Il linguista Claudio Marazzini, Presidente dell’Accademia della Crusca, chiarisce che si tratta sempre di una decisione politica: «la richiesta di mobilitazione rivolta al Paese comporta una tendenza a usare quei termini, anche perché non ci sono precedenti nella collettiva memoria pacifica degli italiani di oggi. E certamente, l’uso delle parole segnala il livello di allerta che il Governo ritiene opportuno in un determinato momento, e la ricezione di quest’uso determina una commisurata reazione della comunità».

I mezzi di comunicazione di massa, ormai allineati nella ricerca della notizia estrema nella forma e nei contenuti, sfruttano così la grande metafora della guerra e del nemico da combattere per far convergere i cittadini tutti verso un modello virtuoso di comportamento. Se a questo aggiungiamo la cosiddetta viralità dei contenuti, che si è fatta strada negli ultimi anni a proposito dei social network e del web, otteniamo una narrazione alterata, fatta di attributi fin troppo forti e drammatici. La metafora bellica, inoltre, è sbagliata perché non siamo di fronte a un avversario oltre il confine: il nemico è comune e l’altro è nostro alleato. La guerra infondo deresponsabilizza e delega tutto a chi combatte in prima linea, ma questa metafora non aiuta dal punto di vista psicologico e cognitivo, né come individui né come società. Oggi invece siamo tutti responsabili e chiamati a sforzi, cautele, sacrifici condivisi, ma anche a fidarci e mettere in atto comportamenti in grado di ispirare fiducia.

L’Italia, rispetto ad altri Paesi che affrontano una sfida comunicativa simile, registra una percentuale di utenti abituali del web che fanno riferimento ai canali di comunicazione istituzionale decisamente inferiore rispetto alla zona UE: l’infodemia trova insomma nel bel Paese terreno fertile e attecchisce più facilmente che altrove. A questo dato bisogna aggiungere il legame diretto che vi è tra la scarsa leggibilità della comunicazione istituzione e l’infodemia stessa, che colpisce chi fatica ad accedere ai canali utili per la verifica della veridicità delle notizie. Chi non comprende è perciò più vulnerabile ed esposto a dissonanze che possono generare il panico o portare a comportamenti controproducenti.

Una comunicazione nuova è quindi possibile, anche in questo contesto? Certo, ma richiede uno sforzo collettivo. È necessario innanzitutto intervenire sulla comunicazione dei canali istituzionali e scientifici, affinché diventi uno strumento sempre più comprensibile e quindi efficace. Occorre poi riscoprire un’etica della comunicazione capace di fronteggiare la sfida della lotta contro l’inesprimibile e creare al tempo stesso relazioni sociali. Ciò significa cercare con maggiore cura le caratteristiche del fenomeno, analizzarlo in maniera razionale e solo allora dedicarci alla comunicazione dello stesso; ma anche lavorare sulla creazione di uno sguardo reciproco, fondato sul dialogo e sulla condivisione. Lo hanno dimostrato i flash mob, i piccoli atti di gentilezza, le chiacchiere sul balcone tra vicini di casa: tutto ciò che era andato smarrito nella quotidianità è invece tornato con prepotenza. La metafora bellica dello scontro rischia di vanificare la faticosa rinascita della società cui stiamo assistendo, che richiede invece uno sguardo nuovo volto a cogliere e raccontare le diverse realtà che abbiamo davanti.

Già pubblicato su Quotidiano del Sud – L’Altravoce dei Ventenni 27/04/2020