Il mio 2018 in 16:9

Nella percezione comune gennaio è il mese più lungo dell’anno, perché serve tempo per elaborare l’anno passato e soprattutto perché serve tempo per ricordarsi di cambiare la cifra finale quando scriviamo le date. Se ripenso al mio 2018 ho chiarissima l’immagine di una giovane donna impegnata e attiva, che con malcelata soddisfazione mette da parte le cose da fare, apre il pc e si stravacca sul divano a guardare Netflix avvolta in una calda coperta.

Netflix è l’unica piattaforma streaming che uso attualmente, le serie tv di mio interesse sono reperibili lì, ma non escludo che il mio campo visivo non possa ampliarsi in questo 2019 (è tra i miei buoni propositi, insieme a cose di minore importanza come, per esempio, la laurea).

Per ricapitolare quello che è stato il meglio del mio 2018 televisivo, quindi, non posso che partire da ottobre. Per almeno due terzi dell’anno, infatti, Netflix si è concentrato molto di più sulla produzione di film, lasciando che qualcuna delle serie ancora in corso si concludesse e alcune piccole perle facessero il loro esordio lasciandoci nell’oblio del “verrà rinnovata?”. Una su tutte The end of the f***ing world di cui abbiamo già parlato approfonditamente qui. Per cui ben vengano le commedie sentimentali con giovani adolescenti, della cui qualità sono ignara perché decisamente non rientro più nel pubblico di riferimento, né ho mai sopportato i drammi amorosi, davanti e dietro lo schermo.

Una menzione speciale va a “Sulla mia pelle”, il film sugli ultimi giorni di vita di Stefano Cucchi, la cui storia è tuttora oggetto di dibattiti e discussioni, stravolgimenti e censure. Il regista Alessio Cremonini ha saputo raccontare con i silenzi, le porte chiuse e un po’ di romanaccio la storia che non voleva essere vista, la storia che la sorella di Stefano, Ilaria, ha reso oggetto della sua battaglia. Attraverso il talento di Alessandro Borghi, attore protagonista, sentiamo tutto il peso del silenzio che racchiude ciò che non viene detto e anche di ciò che non viene ascoltato. Le senti tutte, le ferite di Stefano e della famiglia Cucchi, quelle fisiche e non, e non sarà più possibile ignorarle.

Detto ciò, ci sono tre eventi televisivi che più hanno fatto tremare la tazza di tè nelle mani. Iniziamo da una nota dolente:

La terza stagione di Daredevil

L’ultimo capitolo della migliore serie Marvel su Netflix ha mostrato il meglio di sé, giusto in tempo per spezzarci il cuore. Da un po’ di mesi era in corso una mattanza dei prodotti Disney sulla piattaforma: durante l’estate ci hanno privato dei film d’animazione più famosi e man mano ogni serie è stata cancellata. A quanto pare la Walt Disney Company ha in serbo una piattaforma di streaming indipendente, quindi ogni prodotto sotto il loro marchio è stato inevitabilmente abbandonato dalla concorrenza.

Quando hanno annunciato la fine di Iron Fist sapevamo tutti che non sarebbe mancato a nessuno. Della fine di Luke Cage apparentemente si sono intristiti tutti tranne me. Non doveva sorprendere i fan che avrebbero fatto lo stesso col Diavolo di Hell’s Kitchen, eppure. La notizia ha dato un sapore dolceamaro al finale, che si è rivelato spettacolare. Forse perché avvisati per tempo dell’imminente cancellazione, gli sceneggiatori sembrano aver investito ogni sforzo per concludere tutte le storyline lasciate a metà e riempire le lacune dei fan per impreziosire la storia. Rispolverato lo storico villain del supereroe, Kingpin, gli è stata data nuova forza, mentre Matt Murdock affrontava gli ultimi demoni del suo passato e ne incontrava di nuovi, finalmente al suo livello. Il barlume di speranza e ottimismo è palpabile nell’ultima scena, in cui hanno voluto inserire un cliffhanger alla Avatar o, se vogliamo, alla Breaking Dawn parte uno, comunque palesemente inutile. E in questo coacervo di uomini dotati, si sono rivelati essenziali alla storia proprio i personaggi privi di capacità sovrumane: una volta approfondito il passato di Karen Page, il suo lato oscuro (prima solo accennato o sussurrato) si è manifestato in tutte le sue problematicità, rendendola un personaggio completo e ancora più attivo rispetto alle stagioni passate. Non serve che mi dilunghi sugli altri, ma ognuno dei personaggi secondari, per quanto brevemente in vita, ha saputo trovare un posto d’onore nella trama orizzontale. E nel mio cuore. Chiudere dopo l’ultimo episodio stato più doloroso che assistere allo schiocco di Thanos.

La cancellazione di Brooklyn 99

Brooklyn Nine-Nine è la comedy migliore in circolazione e negli anni ha saputo conquistarsi una fanbase solida e leale. Con all’attivo cinque stagioni, la serie ha come protagonista Jake Peralta, un poliziotto dalla personalità esuberante dell’immaginario distretto 99 di New York. Al centro della trama ci sono, quindi, i casi da indagare, ma soprattutto le relazioni  polizia e le stramberie di cui sono capaci i comprimari.

Ma a maggio 2018, la batosta: la FOX cancella la serie e internet esplode. I fan generano un terremoto che non passa inosservato e gli ideatori si mettono subito all’opera per cercare un’altra rete televisiva che possa ospitarli. La scelta ricade sulla NBC che, in meno di ventiquattr’ore, permette alla serie di proseguire per una sesta stagione. L’evento ha sconvolto il mondo e internet, provando che la lealtà dei fan, è ben riposta, perché i produttori, gli sceneggiatori, gli attori e tutti gli addetti ai lavori di Brooklyn Nine-Nine sono riconoscenti per la fiducia riposta e se la meritano.

Raramente una serie comedy ha saputo affrontare temi difficili. I diritti delle donne, la condizione lavorativa e sociale delle minoranze negli Stati Uniti e l’omofobia, vengono affrontate con una giusta alternanza di comico e serio, dando valore e spazio a magone e risata, senza che l’uno superi l’altra. E, alla fine, sembra davvero che in questa serie siano tutti dei pezzi di pane. Melissa Fumero e Stephanie Beatriz (rispettivamente: le detective Amy Santiago e Rosa Diaz nella serie) hanno spesso parlato dell’importanza della rappresentazione delle minoranze a Hollywood, mostrandosi grate verso i produttori per le scelte del casting della serie, che, rompe l’abitudine hollywoodiana di scegliere “un attore latino per volta”, assumendo entrambe. Inoltre, recentemente, Terry Crews- che interpreta il Sergente Terry Jefford- ha mostrato il suo supporto al movimento #MeToo denunciando un episodio di molestie che lo ha visto vittima delle attenzioni di un produttore potente, mettendo in luce come certe dinamiche di potere non riguardino solo un genere o una categoria. Partecipare a una conversazione del genere, sulla natura degli abusi sessuali, ad oggi è ancora rischiosa e la prova sono i commenti ricevuti dall’attore dopo le sue dichiarazioni: perpetuando quella che è una visione malata della mascolinità, molti “colleghi” dell’industria dell’intrattenimento hanno mostrato perplessità- se non deriso- la testimonianza di Terry. Come può un uomo muscoloso, alto e dalla carriera decennale sentirsi piccolo e impotente, di fronte a un’avance esplicita? Forse ha capito male, forse è una “mammoletta”? No. Direi che forse, più che mai, le parole di Terry si sono rese necessarie (anzi fondamentali) per iniziare una discussione sull’argomento.

Insomma, la serie è un piccolo gioiello, davvero, ma io piango di commozione davanti a tale impegno.

The Haunting of Hill House

Per ultimo, ma non per importanza, il culmine raggiunto da Netflix nel 2018 e forse nella storia della sua esistenza. La serie horror The Haunting of Hill House conta una sola stagione, autoconclusiva. È ispirata al romanzo di Shirley Jackson L’incubo di Hill House, nota per saper mescolare con efficacia elementi sovrannaturali e introspettivi: nei suoi romanzi la spiritualità è funzionale alla sfera emotiva dei protagonisti e interagisce con le loro emozioni in forma di presenze, mai palpabili ma sempre presenti.

Le differenze tra i due prodotti sono notevoli, ma senza voler oscurare il talento della Jackson, è chiaro che scrivendo nel contesto degli anni 50 e 60 non potesse approfondire alcune tematiche e la serie, da questo e molti altri punti di vista, risulta essere un prodotto più completo, capace di mescolare voci e storie diverse per creare un quadro variopinto e, per ovvie ragioni, incredibilmente cupo e di notevole impatto. I protagonisti sono i membri della famiglia Crain, mostrati in due finestre temporali diverse: l’estate che trascorrono a Hill House e l’inverno in cui, da adulti, decidono di fare i conti con il loro passato.

I fratelli Crain sono cinque storie, cinque personalità, cinque traumi diversi che si uniscono per affrontare demoni comuni, reali e fluttuanti.

Ora, non mentirò, è sì una serie horror, ma di un horror come si deve. Il brivido freddo che ti scorre dentro mentre la guardi non ti abbandona fino alla fine (e sinceramente non mi lascia neanche adesso). Ci sono cadaveri, fantasmi e soggetti psicolabili, ma sono presenze che spariscono il tempo di un urlo. Il disagio vero, l’inquietudine che sa trasmettere la serie è quella che inutilmente cercano di instillare senza successo i film di paura degli ultimi anni. Che senso ha inserire jumpscare(da Wikipedia: “[…]tecnica usata nei film e nei videogiochi horror per spaventare lo spettatore con un evento improvviso o inaspettato” ) se li annunci con un crescendo musicale? In Hill House c’è un jumpscare- uno solo! – non te lo aspetti e “salti di paura” per davvero. E sono felice di aver ceduto quei dieci anni di vita per averlo guardato.

E, oltre all’horror, c’è molto di più. La storia dei fratelli Crain si sviluppa mostrando gli stadi di elaborazione del lutto giungendo ad un epilogo che è un traguardo sofferto in cui ogni cosa trovata e persa nel percorso trova il suo senso. La casa, così maestosa, ma chiusa e impenetrabile, diventa un personaggio a sé e incarna la metafora finale, con la quale vuole mostrare i modi in cui i morti possono manifestare la loro “presenza” nelle vite di coloro che li hanno amati. Una versione migliore di “I fantasmi sono una metafora”, la frase che viene continuamente ripetuta in Crimson Peak- un film che ha acquistato senso per me solo alla visione di Tom Hiddleston in abiti vittoriani. Hill House ti lancia un enorme bagaglio emotivo addosso, ma al termine della visione, senti solo la malinconia dolcissima di chi saluta i parenti prima di partire per un lungo viaggio. Il finale chiude tutte le porte e ogni questione in sospeso, per una volta non viene lasciato niente al caso e i dubbi smettono di essere tali.

Decisamente non è la serie da mettere in sottofondo mentre si fanno le faccende di casa. Qualcuno ha accennato alla possibilità di realizzare una seconda stagione, ma le premesse non fanno sperare in una continuazione della storia dei Crain. E, se permettete, ne hanno già passate fin troppe, diamo un po’ di tregua a questi ragazzi.

Chiara Allevato
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Nasce a Cosenza nel 1993. Laureata in Scienze Politiche, convive con una memoria straordinaria per fatti assolutamente irrilevanti. Da brava millennial, ha un account attivo su ogni social, ma il suo preferito rimane Twitter.