Il fallimento della Cop27 e la necessità di ripensare le azioni per il clima

Lo scorso 6 novembre si è aperta, a Sharm el-Sheik, la ventisettesima Conferenza delle Parti sul clima delle Nazioni Unite. Si tratta di una preziosa occasione di incontro per imprese, organizzazioni non governative e Governi per fare il punto sulla crisi ecologica e climatica e cercare nuovi accordi di mitigazione. Sebbene l’attenzione dei media su queste conferenze cresca di volta in volta, queste sono divenute ormai passerelle per i leader internazionali e palchi su cui mettere in scena progetti di greenwashing.

La stessa scelta di ambientare la Cop27 nell’Egitto di Al Sisi altro non è che un’operazione di greenwashing: nel Paese, infatti, i diritti civili e sociali riconosciuti dalla comunità internazionale vengono puntualmente violati ed è uno dei luoghi in cui l’attivismo ambientale trova le maggiori resistenze per via di una legislazione, datata 2014, che impedisce ai movimenti stessi di accedere a fondi e donazioni. Dal 2019, inoltre, il procedimento per l’ottenimento dello status di organizzazioni non governative è stato complicato al punto da divenire praticamente impossibile da conseguire. A tutto questo, bisogna poi aggiungere la sistematica operazione di censura governativa, che ha portato alla chiusura di testate indipendenti e migliaia di siti web, ma anche alla persecuzione di diversi giornalisti. Alcuni attivisti, in vista della Conferenza, hanno denunciato i ritardi nell’ottenimento dei visti di entrata in Egitto e le difficoltà a essere accettati negli hotel per via di fantomatiche regole di sicurezza.

Nel corso dei giorni, sono tantissimi i leader che hanno sfilato al cospetto del dittatore egiziano e il greenwashing operato dal suo stato di polizia ha fatto apparire l’Egitto come una fonte di gas accettabile, soprattutto agli occhi dei leader europei alla disperata ricerca di soluzioni rapide alla crisi energetica. Nel video di presentazione di Cop27, Sharm e-Sheik appare come una città progressista e verde e si spinge fino al punto di dedicare per prima un intero padiglione ai giovani affinché questi possano “dire la verità al potere e partecipare ai processi decisionali”. Questa iniziativa, tuttavia, non riesce a far dimenticare che, una volta varcate le conference room dedicate, ci si trova in una dittatura e quei giovani cui oggi si chiede di “dire la verità” sono gli stessi che, da adolescenti, sono stati imprigionati dopo le manifestazioni di piazza Tahrir.

Nuove generazioni al megafono, quindi, ma solo nei ristretti limiti concessi, come quelli del padiglione loro dedicato che porta con sé regole e programmi definiti dall’alto. In Egitto si può incentivare l’uso della bicicletta, ma non si può chiedere giustizia climatica e uguaglianza sociale.

Anche il coinvolgimento di soggetti privati alla Cop27 rappresenta un problema: pensiamo, per esempio, al controverso coinvolgimento di Coca-Cola quale main sponsor, nonostante il suo noto primato quale produttore di plastiche monouso. A Cop 27, Coca-Cola ha pubblicizzato progetti green quali l’utilizzo di bottigliette in plastica riciclata e la neutralità carbonica, ma a oggi è responsabile della produzione di oltre 14 milioni di tonnellate di CO2, ogni anno.

Non è la prima volta che le Nazioni Unite offrono spazi a progetti che, in realtà, nascondono operazioni di greenwashing: basti pensare che tra i vincitori del UN Global Climate Action Award vi sono aziende quali Apple, il cui impegno verso una tecnologia “green” convive con uno sfruttamento ormai insostenibile di risorse naturali. Ancor meno convincente è la presenza, tra le varie delegazioni, di 363 lobbisti dell’industria fossile, aumentati del 25% rispetto allo scorso anno.

Più che “Cop d’Africa”, come molte testate titolano, ci troviamo di fronte alla Cop del fallimento. Le conferenze celebrano quest’anno i primi trent’anni, durante i quali le emissioni hanno continuato a crescere e la comunità internazionale è in disaccordo su tutto.

Dal documento finale emerge “di esercitare tutti gli sforzi per raggiungere l’obiettivo dell’Accordo di Parigi di mantenere l’aumento della temperatura media globale ben sotto i 2°C dai livelli pre-industriali e per perseguire gli sforzi per limitare l’aumento della temperatura a 1,5°C sopra i livelli pre-industriali”, ma anche il “profondo rincrescimento che i Paesi sviluppati che hanno le maggiori capacità per ridurre le loro emissioni continuino a non farlo. Questi dovrebbero arrivare a zero emissioni nette al 2030. I Paesi in via di sviluppo possono migliorare le loro ambizioni di mitigazione con il sostegno dei paesi sviluppati”.

Una delle difficoltà maggiori di un contesto come la Cop è la necessità del consenso unanime per ogni decisione ed ormai necessario ripensare i meccanismi e trovare strade alternative. La letteratura giuridica propone di rinegoziare in contesti più ristretti, ma non si può negare che iniziative come il fondo “loss and damage” da 100 miliardi approvato durante lo scorso G20 sia lettera morta.

La verità è che questi vertici internazionali hanno in comune l’esclusione della società civile, relegata spesso al ruolo di semplice relatrice, ma nei fatti priva di potere decisionale. Eppure, la rilevanza della società civile e di attori politici come leader religiosi o capi tribù non può più essere ignorata.

In un quadro internazionale in cui le conferenze ONU richiamano sì i leader politici al confronto sul tema ambientale, ma sono prive della forza dei movimenti della società civile, la Cop27 si presenta come un fallimento perché non riesce a divenire reale portavoce di un’alternativa radicale alla crisi climatica.

La trasformazione è non solo necessaria, ma urgente perché nasce da un’ingiustizia. E di fronte alle ingiustizie, non rimangono che atti di insurrezione che sono espressione di disperazione, ma anche fonte di speranza: le piazze gremite, la disobbedienza civile, la sensibilizzazione al cambiamento di stili di vita non più sostenibili sono le armi che la società civile deve sfoderare per esporre le difficoltà del presente ed elaborare le soluzioni del futuro, accompagnando istituzioni vecchie e instabili.

Articolo pubblicato su Il Quotidiano del Sud – L’Altravoce dei ventenni