E-government, ci sarà pure un computer a Berlino

Come la tecnologia ha cambiato l’amministrazione pubblica prima e durante l’emergenza COVID-19 e come potrebbe cambiarla in futuro

Con il diffondersi dell’epidemia da COVID-19 e le conseguenti limitazioni alla nostra quotidianità, molto si sta discutendo delle tecnologie dell’informazione e del ruolo che possono giocare nel superare la crisi limitando al minimo i nostri disagi.

In particolare, con la riduzione del funzionamento degli uffici pubblici e la conseguente valorizzazione del lavoro agile, è tornato sotto il riflettore il tema – tanto travagliato – del rapporto tra Pubblica Amministrazione e tecnologia. La questione in realtà tornava ciclicamente all’attenzione della stampa anche prima dell’emergenza, perché più volte invocata come possibile chiave di volta per svecchiare la macchina burocratica.
Alcuni strumenti tecnologici, negli ultimi anni, hanno contribuito a rivoluzionare il rapporto tra privati e amministrazione e, in fondo, la nostra stessa vita quotidiana.

La Posta elettronica certificata è uno di questi. Un messaggio PEC, nel nostro ordinamento, ha lo stesso identico valore di una raccomandata e, quando viene spedito, si riceve una ricevuta digitale con validità legale. Tutte le pubbliche amministrazioni devono avere un indirizzo PEC, reso disponibile sul proprio sito e su un apposito registre. Lo stesso vale per tutte le imprese e per tutti i professionisti iscritti all’albo. Nel 2019 solo in Italia il numero di caselle PEC ha sfondato i dieci milioni. Il servizio base costa in genere meno di dieci euro all’anno che, a ben pensare, è il costo di una sola raccomandata postale. Forse, sarebbe il caso di agevolare i privati che intendono aprire una casella PEC, consentendo loro di ricevere tutte le comunicazioni dell’amministrazione pubblica direttamente lì, con risparmio delle spese di notifica.

Al fianco della PEC, c’è la firma digitale. È qualcosa di molto simile nella funzione alla firma tradizionale, ma di molto diverso nella forma. La funzione della firma autografa è accertare che un certo documento provenga da una certa mano e sia quindi riconducibile a una certa persona. Si basa, semplicemente, sul principio per cui il mio nome “come lo scrivo io” non lo scrive nessun altro: la grafia è infatti caratterizzata da centinaia di variabili, tali per cui una certa grafia corrisponde a una persona in modo quasi biunivoco, come l’impronta digitale. La firma digitale non ha nessun collegamento con la grafia, ma ha la stessa funzione: identificare una certa persona e dare certezza che un documento provenga da lei. Quando si compra una firma digitale, si riceve un codice segreto, un PIN, utilizzando il quale si può firmare un documento informatico o un file. Aprendo quel file si avrà la conferma che proviene da una certa persona.
Questi due strumenti, PEC e firma digitale, operando sinergicamente, hanno rivoluzionato la pubblica amministrazione e, più in generale, gran parte dei rapporti organizzativi anche nel privato.

Prendiamo il caso di un comune che debba fare una comunicazione ufficiale a tutte le imprese nel suo territorio. Un tempo, l’ufficio avrebbe dovuto contattare l’ufficio del Registro Imprese per farsi dare tutti gli indirizzi, preparare la comunicazione, compilarla, stamparne centinaia di copie, trasmetterle al dirigente o al funzionario perché le firmasse a mano una per una, imbustarle e scrivere gli indirizzi su ciascuna busta, infine affidarle al messo o al postino e spendere non poco denaro dei contribuenti per spedirle, con il rischio di non trovare nessuno a destinazione.
Oggi l’amministrazione va sul sito ufficiale del Registro, dove sono già riportate tutte le imprese, indicizzate geograficamente ed estrae tutti i dati che servono: per ogni impresa è indicata la PEC, che è sempre valida per ogni comunicazione. L’ufficio predispone le comunicazioni come documenti informatici e le trasmette al funzionario che, in un istante, può firmarle tutte digitalmente insieme, con un click. L’ufficio spedisce poi le singole comunicazioni con una PEC, che ha lo stesso valore legale della raccomandata. Istantaneamente, il sistema genera la ricevuta, che l’addetto inserisce nel fascicolo telematico della pratica per dimostrare di aver eseguito correttamente la spedizione.
Lo stesso vale nel senso opposto. Se chiedo un certificato al Comune, potrei oggi evitare di andare a fare la fila, far perdere tempo ai funzionari. Invio una PEC e ricevo via PEC il certificato firmato digitalmente. Qua potrebbe porsi un problema: il certificato ha un costo, come pagarlo? Devo andare in ufficio a portare la marca da bollo? Più in generale, come si può trasmettere denaro all’amministrazione.
Era un problema fino a qualche mese fa, ora risolto o – almeno – a buon punto di risoluzione, grazie a PagoPA. PagoPA è un sistema di pagamenti elettronici previsto dalla legge e realizzato per rendere più semplice, sicuro e trasparente qualsiasi pagamento verso la Pubblica Amministrazione. Si trasferisce il denaro attraverso una piattaforma istituzionale, le cui meccaniche tecniche sono sostanzialmente identiche a quello di un sito di e-commerce: si paga con modalità telematiche e si ottiene una ricevuta digitale.

Queste esperienze sono positive, ad oggi, in termini di qualità, beneficiando l’amministrazione con un risparmio organizzativo e di gestione, ma restano poco persuasive sui grandi numeri. In particolare, è statisticamente significativo il numero di utenti che, pur riuscendo ad utilizzare le tecnologie dell’informazione, ricorra a procedure obsolete, con aggravio di costi per l’amministrazione. Sarebbe forse il caso di valutare misure incentivanti, in termini economici, per chi utilizza la tecnologia, che gratifichino l’utente in considerazione del risparmio ottenuto dall’Amministrazione.
Grande assente, sino ad oggi, nelle evoluzioni tecnologiche, la videoconferenza, che sta muovendo i primi passi nei rapporti tra Pubblica Amministrazione e cittadini solo ora, a causa del regime emergenziale COVID-19. Si potrebbero, ad esempio, valutare ed implementare le possibilità, per gli uffici pubblici, di ricevere gli utenti in videoconferenza. Si tratta di un principio che, con qualche difficoltà, sta tentando di applicarsi in relazione alle udienze in tribunale: i recentissimi interventi normativi, al fine di prevenire un blocco della giustizia durante l’epidemia, hanno infatti previsto la possibilità di udienze da remoto che, in alcuni casi, si stanno rivelando strumenti efficienti.
Di questi strumenti si dovrebbe, cum grano salis, tenere conto anche dopo il termine dell’epidemia, al fine di garantire un’amministrazione che sia sempre agile, non solo durante l’emergenza, in particolare in favore di chi difficilmente possa spostarsi e sostenere i costi e i tempi di un’amministrazione ancora fin troppo burocratizzata.

“Ci sarà pure un giudice a Berlino” recita un celebre detto, per esprimere la speranza di un giudice imparziale e dalla parte del popolo. Si spera, anche un computer.


Articolo già pubblicato sul Quotidiano del Sud – l’Altravoce dell’Italia di lunedì 27/04/2020