All’anagrafe Luca, in arte Dorian Nox: nato con la pelle del sud e, soprattutto, con la fame del sud. Muove i suoi primi passi nel mondo della musica rap qualche anno fa, dopo aver custodito gelosamente i suoi testi, buttati giù tutto d’un fiato tra le quattro mura della sua stanza.
L’arrivo a Milano e gli incontri fortuiti della vita fanno il resto: il 17 gennaio è uscito il suo primo album Freddo, preceduto dalla pubblicazione del suo EP d’esordio Viaggio al centro della testa. Un viaggio, quello di Dorian, che gli ha permesso di riscoprirsi e di mostrarci che “se siamo disposti a pagare la fatica della scalata, la ricompensa sta nel rivedere il panorama dalla duna”.
Dorian Nox: qual è l’origine del tuo nome?
Dorian, come il protagonista del libro che mi avrebbe cambiato l’esistenza: The picture of Dorian Gray; e Nox, come la mia più fedele compagna di viaggi, di scrittura, di riflessioni: la Notte (dal latino: nox, noctis). Dorian, in particolare, nasce ben prima della mia musica: a 16 anni intuii che quello sarebbe stato il nome del mio alter ego più tormentato, della mia parte buia. Tutti ne abbiamo una, la differenza sta solo nella scelta di darle un nome oppure no.
Come e quando hai iniziato a scrivere?
In realtà scrivo da una vita. Ho sempre scritto su qualunque pezzo di carta mi capitasse tra le mani, senza mai pubblicare nulla. Ho capito che la scrittura fosse il mezzo per avvicinarmi alla musica a 18 anni: ho cominciato a provarci, a declinarla in rime e metriche, quasi affannosamente, ma sbagliavo sempre la direzione. Mi sforzavo a tutti i costi di scrivere ciò che provavo, io che venivo da una scrittura più analitica e razionale. Mi ritrovavo con un saggio breve delle mie emozioni: non funzionava. Era un po’ come voler provare ad accendere il sole in camera da letto: per quanto ci possa provare, non si può. Quindi ho cominciato a vivere la scrittura più dal punto di vista di una finestra: più mi aprivo, più il sole semplicemente entrava in camera, senza fatica alcuna. Quindi ho smesso di scrivere io a tutti i costi e, con semplicità, mi faccio guidare da lei, quando mi viene a trovare.
Dopo 4 anni e mezzo di cameretta, di pezzi urlati allo specchio, di testi soffocati nel buio e nelle mie paure, ho preso coraggio e ho finalmente deciso di mostrarmi anche all’esterno.
Quali sono le difficoltà che hai incontrato nel produrre la tua musica?
Inizio col rispondere al quante sono le difficoltà che ho incontrato: tantissime. Non ho mai studiato musica, non ho mai suonato uno strumento, non conosco nemmeno le basi per avvicinarmi a comprendere il significato di “Nota”. Non è affatto un vanto, anzi, la sento come grande lacuna che sto provando a recuperare. Quando ho cominciato, avevo pochissimi amici nel settore e, sin da ragazzino, ero musicalmente quello “sfigato” perché amavo il Rap, un genere che per molti dei miei compagni era definito rumori (e oggi un po’ sorrido nel vederli cantare pezzi che dieci anni fa avrebbero odiato). Non è stata la migliore partenza. Mi avvicinavo a stento anche a quei pochissimi ragazzi che facevano rap nella mia città quando non lo faceva nessuno. Son sempre stato un lupo solitario in tal senso. Poi sono arrivato a Milano e qui non conoscevo davvero nessuno, zero, nisba. Le opportunità erano molte, ma i miei strumenti pochissimi. Il mio maestro più grande è stato senza dubbio il mio orecchio: prima di essere un autore, sono un inesauribile ascoltatore. Ci sono artisti che mi sono entrati letteralmente dentro le viscere, con cui ho vibrato sulle stesse corde, che mi hanno convinto a non arrendermi e a trovare un modo. La vita poi ha fatto il resto, portandomi sulla strada altri maestri che mi hanno dato una grande mano, primo tra tutti MazzaKen, il mio producer, fonico, nonché grande amico. E, fortunatamente, la vita mi ha permesso di avere dei compagni di viaggio meravigliosi, come mia sorella, che mi ha sostenuto sin dal primissimo giorno, tutta la mia famiglia, fino ad alcuni miei amici. Senza di loro, forse, non sarei stato in grado di muovere un solo passo.
Viaggio al centro della Testa è stato il tuo EP d’esordio. Quanto è stato complesso questo viaggio?
Moltissimo. Viaggio al centro della Testa – seppur sia il mio lavoro più embrionale dal punto di vista musicale (ma molto curato nella scrittura) – ha avuto un ruolo fondamentale nel mio percorso e per questo gli vorrò sempre bene. Non è stato solo un EP, per me è stata la svolta tra un prima e un dopo, tra un Luca pieno di paura nell’esprimere le sue emozioni ed un Dorian che, nonostante quella paura, aveva deciso di provarci. Narra di un lungo viaggio d’introspezione nel mio IO che a quei tempi identificavo di più con la mia testa. A risentirli oggi, direi che brani come Dedalo sono letteralmente ambientati nella mia testa, mentre brani come Tutto Bene abitano il cuore, altri come Assenzi e dissensi vivono nel mio fegato. È stato complesso perché era la mia primissima volta in uno studio e con un microfono in mano, un esperimento con me stesso, fatto per il semplice gusto di ascoltare brani incastonati nel registratore del cellulare per anni. Per due volte non mi ero presentato a diversi appuntamenti in studi di registrazione, poi ho deciso di provarci, senza pubblicare nulla. Ed alla fine mi sono convinta a pubblicare. Nemmeno i miei migliori amici sospettavano nulla. Il mio primo concerto di presentazione dell’intero album è avvenuto di fronte a circa 800 persone, compresa la mia famiglia, nella mia città. Puoi immaginare come stessi. E’ una delle cose che porterò per sempre nel mio cuore.
Il 17 gennaio è uscito il tuo primo album, Freddo, dal titolo emblematico. Nel brano dall’omonimo nome, parli di una sensazione di freddo dentro e fuori te. Senti ancora freddo?
È stato un lungo, lunghissimo inverno per me. Mentre il mondo si allarmava per il riscaldamento globale, io vedevo gelo e ghiaccio in ogni dove. Ed era normale: tutto ciò che vediamo è il riflesso di ciò che siamo. Tutto era immobile. Poi, come una grazia, ho intuito che quel momento era per me, non era contro di me. Allora la mia unica arma è stata raccontarlo con la musica. Il freddo è durato per anni, poi è finito. È stato senza dubbio il periodo più duro e prezioso della mia vita. Proprio come un diamante: duro e prezioso. Senza quel momento non avrei maturato moltissime consapevolezze e non sarei stato in grado di precipitare nell’abisso per tornare alla luce con l’idra.
“Dormi, dormi, anche se ti alzi tu dormi, dormi, diventiamo pazzi ma dormi”: chi sono i dormienti contro cui punti il dito?
In realtà non vuole essere un puntare il dito, ma più una provocazione che spinge alla riflessione. Spesso riteniamo di essere svegli solo perché ci alziamo dal letto per andare a scuola, università o lavoro. Poi, però, come automi, compiamo sempre le stesse azioni, riproponiamo sempre gli stessi schemi mentali, riportiamo le stesse considerazioni, esprimiamo le stesse critiche al vicino, gli stessi fastidi, gli stessi insulti all’automobilista che ci ha tagliato la strada. Siamo il frutto di una serie di meccanicità che riguardano il nostro apparato psicofisico, bombardato sin da piccolo dall’educazione, dal contesto sociale, economico, culturale, storico in cui ci troviamo. Non agiamo quasi mai di nostra libera iniziativa, ma re-agiamo secondo una “programmazione” cognitiva con cui ci sentiamo identificati. Siamo sicuri di essere svegli solo perché ci siamo alzati dal letto? E se fosse solo uno stato di sonno su un piano differente? O se fosse uno stato di semi-veglia tra il sonno profondo e l’essere davvero svegli e liberi dai nostri condizionamenti?
Le tue origini sono spesso presenti nella tua musica. Veniamo Da giù ne è la dimostrazione. Cosa vuol dire avere la “pelle del sud” per te, originario pugliese e milanese di adozione? Anche in Intro, brano di apertura del tuo album, hai ribadito le tue origini, con una strofa persino in dialetto.
Sono molto legato alla mia terra, di cui non ho mai smesso di sentire il richiamo. Ci tengo a sottolinearlo nei miei pezzi, perché permettono a chi mi ascolta di entrare nel mio immaginario e nel mio vissuto. Il dialetto è sempre stata la mia prima lingua, non ho mai avuto problemi a dirlo. Sono un ragazzo che viene “da giù”, come amo dire a Milano ed al contempo per i miei familiari sono “il milanese”. Una condizione ibrida che tutto sommato mi piace, perché non soffro i campanilismi. Amo entrambe le mie realtà: le mie radici e la mia chioma. Tuttavia, sono nato con la pelle del sud e con la fame del sud, sia fisica che metaforica. Se in alcuni miei pezzi mi diverto a fare anche lo spaccone, è per ricordare che chi ha fame non guarda in faccia a nessuno.
Nella tua produzione hai collaborato anche con altri artisti, tra cui spicca la voce di Roberta Gentile nel brano Amanda. “Tu come Salvador, io come Amanda”: come finisce questa storia?
Questo è uno dei brani a cui sono più affezionato, perché la straordinaria voce di Roberta ha permesso alla mia Amanda di parlare, di urlare assieme a me il dolore di una storia impossibile. Più che uno storytelling della storia tra Dalì e Amanda Lear, è un confronto con il ruolo della musa nelle sue opere: per Salvador la presenza della sua Amanda è stata fondamentale per la sua arte, per me l’assenza della mia Amanda è stata fondamentale per la mia. La musa l’ho dipinta in maniera quasi onnipresente in Freddo, avvolta sempre da un filone di mistero, legata con un filo rosso alle tematiche sull’infinità dell’universo e sulla sua natura unica. La storia, a discapito della melanconia che si percepisce dal brano, termina con una presa di consapevolezza importante: chi tutto prende, poi solo perde: dare è la via del vincente, tienilo a mente.
“Un giorno rivedremo il panorama dalla duna”: un messaggio di speranza pubblicato sul tuo profilo Instagram in questo periodo di emergenza. Cosa speri per il futuro?
Credo che la vita sappia meglio di me cosa ci farà bene nel futuro. Ha i suoi cicli e le sue logiche misteriose, in una direzione che continuamente spinge all’evoluzione. Non solo fisica, ma anche emotiva, mentale e spirituale. A noi non resta che apprendere ciò che il momento presente è venuto a raccontarci. Se siamo disposti a pagare la fatica della scalata, la ricompensa sta nel rivedere il panorama dalla duna. Il dolore di questi giorni l’ho vissuto in prima persona, anche in famiglia. Viene sempre a raccontarci qualcosa, combatterlo serve a poco. Forse dovremmo parlare di meno ed ascoltarlo di più.
“Fino a che muore il chi ero e il chi eri”: una quarantena profonda la tua che hai voluto descrivere nell’ultimo brano Se dici Sbarre, pubblicato qualche giorno fa su YouTube.
La pandemia potrebbe essere venuta per fare pulizia rispetto a ciò che credevamo di essere. In questi giorni potremmo aver osservato quante cose, in realtà, non eravamo. Quante azioni che facevano parte della nostra routine, in realtà non facevano parte di noi, delle nostre reali necessità. Questa quarantena per me è stata un’occasione per rallentare ed osservarmi internamente: stare di più con le mie paure, con le mie sensazioni, con le mie sfaccettature. E non è un pensare di più a noi stessi, ma un sentire di più noi stessi.
È solo in quel momento che muore il chi ero, il chi eri.
Già pubblicato su Quotidiano del Sud-L’altravoce dei Ventenni 06/04/2020