Storia d’inverno

La storia d’Inverno è bianca, è neve. Silenziosa, copre tutto. Si annida ovunque e può nascondere ogni cosa; anche le lacrime, anche gli incubi. Perché io conosco i miei limiti e tutti i fantasmi del mondo non potrebbero farmi paura più di quanta non me ne faccia il mio personale abisso; e tutti i mostri della letteratura non mi farebbero più orrore del mio stesso modo di pensare. La mia mente è una cattedrale dalle guglie di cristallo che mi sono costruito al solo scopo di vederla crollare in un pomeriggio d’inverno.
Ci sono storie che non sono davvero storie, racconti che sono solo inutili nascondigli per bambini spaventati. Oggi sono un bambino spaventato. Ho capito cosa rende le mie notti agitate, i miei risvegli nervosi. Non è la fine di un amore, né la fine in senso assoluto. Niente è per sempre, nasciamo e moriamo soli e anche il tratto in mezzo non è che sia così affollato. No, la cosa che mi terrorizza è non riuscire ad essere abbastanza lucido da distinguere realtà e fantasia. Ho sempre cercato di basare le mie scelte e la mia dialettica sulla ragione, solo per poi vedermi sconfitto da uno o due spasimi d’emozione. La dialettica dell’illuminismo che si piega, incapace di riconoscersi. Sì, certo che ho paura. Come potrei non avere paura di un senso di angoscia totale, capace di annichilire qualsiasi cosa bella, che nasce dal nulla, dall’assurdità più becera. Vorrei vedere come siamo fatti dentro e scoprire centinaia di ingranaggi e allora forse sarei in grado di strapparmi non dico il cuore ma almeno quella rotella dentellata che innesca tutto e mi fa sentire così profondamente inadeguato. Restare soli è una soluzione, se non è una condanna.
Oggi ho bisogno di nascondermi da qualche parte, almeno finché tutto il resto non sarà andato via.
Oggi ho bisogno della neve come di una coperta candida e fredda che mi separi dal mondo.
Ho bisogno di una storia d’inverno.

Il sole attraversa l’ampia vetrata con i suoi raggi tiepidi che si riflettono sull’intelaiatura di metallo, dividendosi in fasci di luce proni ad incontrare la loro tragica dipartita sul pavimento di marmo. Un gracchiare fastidioso anticipa la voce che dall’altoparlante invita i signori passeggeri a salire sul treno e gli altri presenti a non oltrepassare la linea gialla. Io guardo la linea gialla, un confine di vernice che è un limite e insieme una misura di sicurezza. Al momento dell’annuncio diviene una linea di demarcazione, il confine fra chi va e chi resta, l’invalicabile muro di un addio – forse un arrivederci in cui sperare.
Se alzo lo sguardo, vedo un uomo avvolto in paltò di Astrakan che deve aver visto giorni migliori. Scrolla le spalle e sorride.
«Credo sia ora di salutarci» mormora, rimanendo incastrato negli occhi di foglia della giovane donna in piedi sulla scaletta della carrozza numero tre.
Occhidifoglia ricambia lo sguardo ma non il sorriso. Sembra più malinconica che genuinamente triste. L’uomo la prende per mano.
«Non essere triste per me» dice.
«Ti ho reso infelice» risponde lei, anche se con qualche titubanza nella voce.
«Volere bene è una cosa seria. Me lo hai insegnato tu, ricordi? Il problema, con le cose serie, è che pretendono una conclusione».
Occhidifoglia indovina il dolore dietro a quelle parole, denti bianchissimi mordono labbra di corallo.
L’uomo lascia andare la mano della giovane e fa un passo indietro, invitandola così a salire sul treno con  uno sguardo eloquente che vuole essere la conclusione di quello scambio di vuoti e rimorsi. Pur essendo, dei due, quello che soffrirà di più per quella separazione, doversi ritrovare dalla parte di chi consola il proprio carnefice fa parte della sua natura. C’è sempre buonissima ingiustizia.
Guardiamo insieme Occhidifoglia allontanarsi e sappiamo che sarà l’ultima volta.
Distolgo lo sguardo, ma non per pudore. Non mi piacciono le ultime volte, i rimpianti hanno un brutto sapore.
L’uomo tocca la tesa del cappello con due dita in segno di saluto. Fa per andarsene dopo averla vista scomparire, inghiottita dal vagone. Si volta di scatto quando sente il proprio nome pronunciato – gridato! – da lei, affacciata ad un finestrino. Si volta, come si volterebbe Orfeo, ma è già tardi. Il treno è in partenza.
Occhidifoglia muove le labbra ma il fischio del treno, lo sferragliare delle rotaie, sovrastano ogni suono.
L’uomo vorrebbe gridare, rincorrerla, fermare quel cazzo di treno con le proprie mani. E forse lo farebbe, se potesse servire a qualcosa, ma sa perfettamente che ogni gesto sarebbe avventato ed inutile, esattamente come lui. Allora si limita e sollevare un braccio e torna a voltarsi.

Sul binario di fronte si è appena fermato un altro treno. Dalla carrozza di coda scende una coppia. Sembrano felici, si fermano sulla banchina per scambiarsi un bacio. L’uomo li supera e raggiunge l’ampia scalinata in marmo che lo riporterà in superficie. Inizia a salire, un gradino dopo l’altro, con esasperante lentezza. Si guarda intorno, cercando qualcosa che non potrà trovare. Si guarda intorno e vede me, seduto su questa panchina, che spio le vite degli altri. Le partenze e i loro entusiasmi, la tristezza definita ed ineluttabile degli addii insieme alla nostalgia sognante dei ritorni, all’avventurosa euforia degli arrivi. C’è tutto quello che il mondo ha da offrire, in una stazione; qui, tra binari e locomotive, tutto sembra ammantato da un’aura di solennità.
L’uomo continua a fissarmi. Si avvicina, per qualche ragione che fatico a comprendere, e si toglie il cappello.
Mi guarda, lo guardo. Riconosco quegli occhi, proprio identici ai miei.
Rabbrividisco.

Quell’uomo sono io.

E mi dico che forse – forse non mi sono nascosto abbastanza bene.

Calamostro