“Banco di aringhe a sinistra!” annunciò il gabbiano di vedetta, e lo stormo del Faro della Sabbia Rossa accolse la notizia con strida di sollievo. […] A Kengah, una gabbiana dalle piume color argento, piaceva particolarmente osservare le bandiere delle navi, perchè sapeva che ognuno rappresentava un modo di parlare, di chiamare le stesse cose con parole diverse.”
Così inizia uno dei capolavori della letteratura mondiale, Storia di una gabbianella e di un gatto che le insegnò a volare di Luis Sepulveda.
Lo scrittore cileno si è spento oggi all’età di 70 anni per delle complicazioni dovute al Coronavirus, contratto circa una mese fa.
Rendere omaggio a costui è un atto dovuto in tutta coscienza e sentito nel profondo del nostro cuore, se non altro perché lo stesso, con le sue storie semplici ma toccanti, ci ha accompagnato durante la nostra infanzia insegnandoci alcuni importantissimi valori.
A tutti noi, almeno una volta e da bambini, è stata letta la storia di Fortunata e del gatto Zobra, suo amico e fedele compagno.
Il romanzo, scritto nel 1996, – noto, anche, grazie al film di Enzo D’Alò (1998) che lo traspone in immagini usando il linguaggio dell’animazione –nato come storia per bambini, rimane d’insegnamento per tutti, grandi e piccini e lo è, incredibilmente, oggi in virtù dell’attualità dei temi nello stesso trattati.
La città di Amburgo fa da sfondo e da cornice a questa bellissima storia di integrazione e d’amore: Sepulveda ci racconta la storia della gabbiana Kengah che, tuffandosi nelle acque del mar Nero per cibarsi di aringhe, non si avvede di una grossa macchia di petrolio (la “peste nera” a detta dei gabbiani) che le impesta le ali e in cui rimane incidentalmente incastrata. Con estrema forza di volontà, al fine di preservare l’uovo che avrebbe dovuto da lì a breve deporre, Kengah trova le ultime forze per rialzarsi in volo e atterra, ormai in fin di vita, su un balcone.
Qui incontra Zorba, un gatto nero- grassottello con una macchia bianca- al quale, prima di morire, strappa tre promesse: “Prometti che non mangerai l’uovo» stridette aprendo gli occhi. «Prometto che non mi mangerò l’uovo» ripetè Zorba. «Promettimi che ne avrai cura finché non sarà nato il piccolo» stridette sollevando il capo. «Prometto che avrò cura dell’uovo finché non sarà nato il piccolo». «E prometti che gli insegnerai a volare» stridette guardando fisso negli occhi il gatto. Allora Zorba si rese conto che quella sfortunata gabbiana non solo delirava, ma era completamente pazza. «Prometto che gli insegnerò a volare»”.
E’ così che, alla morte della gabbiana, il gatto Zorba accoglie nella comunità felina di Amburgo la neonata gabbianella a cui, proprio per le circostanze in cui è nata, viene dato il nome di Fortunata.
“Miei cari compagni gatti, siamo qui riuniti in questa notte di luna per dare il nostro ultimo saluto a una giovane e sfortunata gabbiana. Ci rattrista che ci abbia lasciati, ma soprattutto ci piange il cuore per come ci ha lasciati, uccisa dalla pazzia degli uomini, che un giorno finirà per distruggere il mondo selvaggio e meraviglioso che Madre Natura ci aveva donato!”
Può un gatto insegnare a volare? Questo è l’interrogativo che pervade e incuriosisce il lettore nella prima parte della storia.
Zorba desidera mantenere tutte e tre le promesse fatte a Kengah, perciò ricorrerà all’aiuto di tutti i suoi (a)mici: Segretario, Colonnello e il dotto Diderot; chiederà persino l’aiuto di un uomo.
Fortunata cresce felice con il gattone Zorba e i suoi (a)mici, tanto felice che desidera essere un gatto.
“E se è tutto un sogno, che importa. Mi piace e voglio continuare a sognare.”
Non si può, però, andare contro il proprio destino: un gabbiano, come tutti gli uccelli, deve volare.
E non tutti sanno volare, o meglio, non tutti possono: di certo, volare non è una caratteristica tipica dei gatti.
“Ti vogliamo tutti bene, Fortunata. E ti vogliamo bene perché sei una gabbiana. Non ti abbiamo contraddetto quando ti abbiamo sentito stridere che eri un gatto, perché ci lusinga che tu voglia essere come noi, ma sei diversa e ci piace che tu sia diversa. Non abbiamo potuto aiutare tua madre, ma te si. Ti abbiamo protetta fin da quando sei uscita dall’uovo. Ti abbiamo dato tutto il nostro affetto senza alcuna intenzione di fare di te un gatto. Ti vogliamo gabbiana. Sentiamo che anche tu ci vuoi bene, che siamo i tuoi amici, la tua famiglia, ed è bene tu sappia che con te abbiamo imparato qualcosa che ci riempie d’orgoglio: abbiamo imparato ad apprezzare, a rispettare e ad amare un essere diverso. E’ molto facile accettare e amare chi è uguale a noi, ma con qualcuno che è diverso è molto difficile, e tu ci hai aiutato a farlo. Sei una gabbiana e devi seguire il tuo destino di gabbiana. Devi volare. Quando ci riuscirai, Fortunata, ti assicuro che sarai felice, e allora i sentimenti verso di noi e i nostri verso di te saranno più intensi e più belli, perché sarà l’affetto tra esseri completamente diversi.”
Fortunata ha paura, preferisce rinnegare se stessa piuttosto che provare a volare.
Tuttavia, Zorba non si dà per vinto, vuole rispettare la promessa fatta a Kengah.
Per aiutare la piccola Fortunata a spiccare il volo, i gatti ricorrono all’aiuto di un umano, ma un umano speciale, qualcuno che conosca “il volo e le sue altezze”: chi meglio di un poeta?
“«Volare mi fa paura» stridette Fortunata alzandosi. «Quando succederà, io sarò accanto a te» miagolò Zorba leccandole la testa.”
Qualche tempo più tardi, nonostante i rituali timori, la piccola Fortunata spiccherà il suo primo volo dal campanile di San Michele.
Sepulveda ci racconta una favola che è un inno all’Amicizia, al Coraggio, alla Rinascita, ma anche all’Integrazione tra specie, che si conclude con un equo scambio fra i due personaggi principali: il gatto guiderà la gabbianella alla scoperta del suo posto nel mondo e le insegnarà, più di tutto, a superare le proprie paure; la gabbianella, dal suo, invece, insegnerà al gatto la lezione più grande di tutte: che l’amore non bada alle differenze, l’amore è amore, anche quando non ci si somiglia.
“È molto facile accettare e amare chi è uguale a noi, ma con qualcuno che è diverso è molto difficile, e tu ci hai aiutato a farlo.”
L’autore sprona chi legge a non guardarsi mai indietro, a lottare per raggiungere i propri obiettivi e ad amare incondizionatamente.
In una storia che ha la semplicità di una favola e lo spirito di una parabola, Sepulveda tocca i temi a lui più cari: l’amore per la natura, la generosità disinteressata e la solidarietà, anche fra diversi, temi ampiamente trattati nella sua lunga carriera letteraria.
Non dimentichiamo che Sepulveda, esule politico, guerrigliero, ecologista, viaggiatore ostinato, ebbe un passato “movimentato”.
Iscritto fin da ragazzo alla Gioventù comunista, pubblica a soli vent’anni il suo primo libro di racconti “Crònicas de Pedro Nadie”, nel periodo in cui inizia la sua vita di vagabondo.
Tornato in Cile, dopo alcuni forti scontri familiari e con lo stesso gruppo politico di appartenenza, entra nelle file dell’Ejercito de Liberacion Nacional in Bolivia.
Rientrato in patria inizia la sua carriera artistica: si diletta nella stesura di racconti, si reinventa regista teatrale, spesso fa il giornalista in radio ma dirige anche una cooperativa agricola, e per finire, decide di entrare come membro del partito socialista nella guardia personale di Salvador Allende.
Ribelle e anticonformista per natura, nel 1973, con il colpo di stato di Augusto Pinochet, viene arrestato e torturato. Per 7 mesi viene fatto prigioniero, motivo per cui Amnesty International interverrà più volte, lanciando appelli in suo aiuto. Ottiene la liberazione a prezzo dell’esilio per 8 anni e inizia la sua fuga per tutto il Sud America.
Sepulveda non si è mai arreso.
Ha continuato, in tutta la sua vita, a studiare, a leggere, a scrivere, a creare, ad insegnare.
Sepulveda, non è famoso, oggi, solo per questo racconto “per bambini”; è riconosciuto anche grazie al “Il Potere dei sogni”, a “Cronache dal cono Sud”, “Patagonia Express” e per “Il vecchio che leggeva Romanzi d’amore”, romanzo scritto in occasione del suo soggiorno in Amazzonia dove studiava l’impatto dell’Occidente sulla popolazione di indios Shuar, sebbene “Storia di una gabbianella e del gatto che le insegnò a volare”, sia stato il suo più grande successo mondiale.
Sulla scia di questo suo titolo acclamato arriveranno poi negli anni “Storia di un gatto e del topo che diventò suo amico”, “Storia di una lumaca che scoprì l’importanza della lentezza”, “Storia di un cane che insegnò a un bambino la fedeltà”, e nel 2018 “Storia di una balena bianca raccontata da lei stessa”.
La sua vita è intensa, ricolma di passione, egli arde e non si spegne: nei suoi scritti si percepisce la sua passione per la vita e il suo amore immenso per la natura.
Proprio ne “Il vecchio che leggeva romanzi d’amore”: il protagonista, Antonio Jose, cacciatore e profondo conoscitore della foresta amazzonica, è alla ricerca del tigrillo, un tipico esemplare femmina di tigre, che, impazzita di dolore per l’assassinio dei suoi cuccioli, va in giro ad uccidere l’uomo. In Sepulveda, la lotta fra l’uomo e l’animale, tra l’uomo e la natura in generale, diventa metafora delle continue barbarie poste in essere dagli uomini.
Ecco perché Antonino Jose, come Sepulveda stesso, si rifugiava nei libri.
Ed infatti la soluzione a tutti i dolori del mondo, secondo l’autore, è proprio l’arte, la scrittura, gli insegnamenti che tramite la parola si potevano trasmettere alle nuove generazioni.
“Sapeva leggere. Possedeva l’antidoto contro il terribile veleno della vecchiaia. Sapeva leggere.”
Sapeva leggere e sapeva amare: “La más bella historia de amor”, ad esempio, è la poesia tratta dalla raccolta “Poesie senza patria” (Guanda, 2003), dedicata da Sepulveda alla moglie Carmen Yanez:
“[….]
Una volta imparato tutto questo
tornai a disfare l’eco del tuo addio
e al suo posto palpitante scrissi
la Più Bella Storia d’Amore
ma, come dice l’adagio,
non si finisce mai
d’imparare e aver dubbi.
[…]”
Imparare, migliorarsi, crescere: è l’insegnamento che, con amore, ci lascia lo scrittore cileno.
Per questo, ogni volta che viene (ri)letta, la storia di Fortunata ha la capacità di affascinare, commuovere e di arricchirci, sempre.
Ci affascina per l’umanizzazione dei protagonisti che rappresentano le caratteristiche e le fragilità umane ma, allo stesso tempo, commuove, soprattutto se viene letto da chi è solito prendersi cura dell’altro, perché in esso viene rappresentata la profondità e l’autenticità dell’amore tipicamente genitoriale, quel sentimento che non costringe ma riempie, che appare a volte così opprimente solo perché insiste e sospinge a far sviluppare tutto ciò che è in noi autentico, innato, affinché fiorisca e si espanda.
Zobra dice a Fortunata che lei non può che essere se stessa, una normale gabbianella. Una normale gabbianella che, proprio per essere se stessa- e quindi unica- sarà per sempre amata per il suo essere speciale e, quindi, diversa.
Ci sono mille ragioni nella nostra vita per essere grati e felici e per percepire la voglia di migliorarsi.
La curiosità di scorgere qualcosa di nuovo intorno a noi e di coltivarlo e preservarlo, ad esempio, tipico di noi giovani che spesso andiamo via, senza sapere verso cosa ci incamminiamo.
Delle volte abbiamo paura, altre siamo egoisti, altre ancora siamo disillusi; spesso non diamo tutto quello che potremmo.
Ci sentiamo abbandonati e poveri, poveri delle emozioni più semplici e pure.
Così commettiamo il più grande errore della nostra vita: se solo ci guardassimo attorno con più consapevolezza, riconosceremmo la grandezza di ciò che ci circonda, imparando a rispettarlo e non calpestarlo: “Nella tua vita avrai molti motivi per essere felice, uno di questi si chiama acqua, un altro ancora si chiama vento, un altro ancora si chiama sole e arriva sempre come una ricompensa dopo la pioggia.”
Invece, non ci curiamo della natura e rischiamo, come è accaduto all’inizio della favola a Kengah, di rimanere intrappolati nella nostra stessa cattiveria, nella nostra noncuranza, nella nostra autodistruzione, senza accorgercene.
“Disgraziatamente gli umani sono imprevedibili. Spesso con le migliori intenzioni causano i danni peggiori.”
Ecco l’attualità dell’opera di Sepulveda in un periodo di così conclamato disordine, in cui i valori vengono meno e la paura pervade nei nostri cuori.
Tali messaggi di speranza sono rivolti anche ai “grandi”, sebbene l’autore sembra rivolgersi ai più i piccoli: egli ha saputo e continua a tramandare messaggi universali con leggerezza, volti a creare un mondo dove aiutare chi è in difficoltà è il valore supremo e perseguibile da chiunque.
Roberta Scorranese del Corriere della Sera diceva che: «Leggere Sepulveda è un continuo scartavetrare la realtà alla ricerca del sogno.»
E infatti, Storia di una gabbianella e di un gatto che le insegnò a volare ci insegna che tutti possiamo volare, dobbiamo soltanto imparare a superare i nostri limiti.
È importante raggiungere i propri sogni, come la gabbianella, ma anche imparare ad amare senza pregiudizio: non è questo, forse, il concetto di vero amore?
“- Bene, gatto. Ci siamo riusciti – disse sospirando – Sì, sull’orlo del baratro ha capito la cosa più importante – miagolò Zorba – Ah sì? E cosa ha capito? – chiese l’umano – Che vola solo chi osa farlo – miagolò Zorba.”
Questo è il grande insegnamento dello scrittore cileno: non bisogna avere paura di fallire, bisogna continuare a sognare, occorre sognare in grande e portare rispetto ai propri sogni, combattere affinché si avverino e non rinnegare se stessi per il timore della sconfitta.
Ad ogni caduta corrisponderà sempre un nuovo tentativo di volo e, prima o poi, ognuno di noi spiegherà le ali e spiccherà il volo, proprio come ha fatto Fortunata dal campanile di San Michele.
Basta crederci, e osare.
E allora addio, Luis, ti immagino mentre ti incammini come Antonino Josè verso nuovi orizzonti, dimenticando del male che abbiamo fatto alla nostra terra e il male che hai subito tu in prima persona nella tua esistenza. Ti immagino purificato da ogni segno di contagio, dalle malattie e dal male che quotidianamente ogni uomo fa, mentre reciti parole d’amore, parole di speranza.
“… tagliò con un colpo di machete un ramo robusto, e appoggiandovisi si avviò verso El Edilio, verso la sua capanna, e verso i suoi romanzi, che parlavano d’amore con parole così belle che a volte gli facevano dimenticare le barbarie umane.”
Martina, sempre la più piccola dell’annata ‘94, laureata LUISS in Giurisprudenza, si definiva ad otto anni “simpatica, anche se i miei fratelli dicono che parlo troppo. Sono una persona responsabile, riflessiva, apprensiva, equilibrata, e molto sensibile, ma soprattutto un po’ pettegola. Sono allegra, divertente e socievole, mi piace stare in compagnia per scherzare, giocare e raccontare barzellette.” Da allora le cose non sono cambiate: parla sempre tanto, pensa sempre troppo e rimane la solita rompi scatole.Va sempre di corsa, non sa stare ferma e forse mostra troppi denti quando sorride.Ama emozionarsi con le piccole cose e cerca in ogni momento un motivo per sorprendersi.E’ un’inguaribile romantica e a volte, a furia di stare con la testa fra le nuvole, rischia di cadere in qualche burrone, dal quale però, trova sempre la forza di rialzarsi!