True Crime? True Hype

Il true crime è un nuovo genere televisivo che vuole raccontare fatti di cronaca fornendo approfondimenti, interviste e rivisitazioni di crimini e serial killer. Esploso oltreoceano, la sua popolarità sta raggiungendo anche l’Italia da qualche anno e la prova risiede nel rapido successo di non solo serie tv e documentari, ma anche podcast, libri, programmi in seconda serata che trattano questo argomento.

L’inizio dell’interesse collettivo può essere imputato all’uscita della docu-serie di Netflix Making a Murderer, nel 2015, che solo negli Stati Uniti venne vista da 20 milioni di persone e suscitò un tale clamore da ispirare la serie antologica America Crime Story di Ryan Murphy e ad oggi è una mania tanto conclamata da essere diventata uno sketch del Saturday Night Live. Anche nella penisola permise il successo della serie podcast Veleno di Pablo Trincia e Alessia Rafanelli, che in sette episodi raccontano di un caso di cronaca che coinvolge presunte sette sataniche e il rapimento di bambini. Il successo e l’interesse per il true crime ha anche ispirato la realizzazione di piccoli ma ambiziosi progetti dedicati, come il podcast Bouquet of Madness di Martina e Federica, donne appassionate che indagano i casi con estrema empatia e profondità.

Sembra, quindi, che non siano solo gli statunitensi ad avere il monopolio delle storie di crimini e serial killer, ma il modo in cui sono state raccontate in Italia, negli anni passati, ha fatto sorgere interrogativi.

Infatti, non siamo nuovi a questo tipo di interesse. La sfilza di casi che ha generato isteria collettiva li vediamo ancora oggi trattati con nuove aggiunte che raggiungono un pubblico di appassionati, alcuni probabilmente sono anche gli stessi che si sarebbero fatti la foto davanti la nave Concordia naufragata o la casa studenti dove alloggiava Amanda Knox, ma altri sono personalità che spesso neanche rispecchiano quello che vuole essere lo “spettatore standard” dei murder show.

Immanuel Casto, star del web, nei primi anni Dieci cantava “pornografia dei sentimenti, drammi catodici per deficienti” nella sua hit Killer Star, ma la diffusione del genere ha presto messo da parte qualunque scetticismo su quello che a tratti viene percepito come un morboso interesse per crimini efferati e storie di serial killer. È in gioco la nostra capacità di provare empatia o alla fine è un passatempo innocuo?

A questa domanda risponde uno studio sulla rivista Health che, riconoscendo il true crime come un tipo di intrattenimento “svuota-cervello” ha cercato di indagare i motivi del suo successo: sembra, di fatto, che guardare per divertimento prodotti che insinuano o mostrano atti di violenza, indagando con approfondita conoscenza forense e anche un po’ di attitude da detective i casi in esame, li faccia percepire come un modo innocuo per sfogare la latente aggressività che coviamo – e di cui parlarono nei loro studi Freud e Jung.

Guardare al lato più oscuro dell’essere umano, al sicuro dietro uno schermo, immergendosi dentro la storia tanto da poter empatizzare non solo con le vittime, ma anche con i carnefici, ci permette di dare sfogo a pensieri istintivi e triviali che altrimenti rimarrebbero soppressi e frustrati. Non sorprende, quindi, che il pubblico di queste serie tv e podcast sia per (stima la BBC) l’80 e 85% femminile: nella società contemporanea ai ragazzi viene insegnato che devono sfogare l’aggressività e reprimere il lato emotivo, alle ragazze l’esatto contrario. Per cui le valvole di sfogo rimangono poche.

I programmi, inoltre, permettono di guardare al mondo con un senso di giustizia ben saldo. Sapere che il colpevole può essere trovato illude che si possa vivere in un universo giusto in cui chi fa del male ne paga le conseguenze e su questo c’è ben poco da biasimare, morbosità o meno.


Articolo già pubblicato su Il Quotidiano del sud – l’Altravoce dei Ventenni il 22 marzo 2021