Le moderne tecnologie hanno progressivamente (e profondamente) innovato il complesso universo delle dinamiche sociali, economiche e umane, impattando irrimediabilmente sulla già articolata geomorfologia dei rapporti interpersonali anche nel mondo del lavoro. A livello macroscopico, la digitalizzazione per un verso ha creato veri e propri nuovi ecosistemi lavorativi, con ruoli e professioni sconosciute in passato, per l’altro ha introdotto forme e modi inediti di svolgere la propria prestazione di lavoro anche nei settori tradizionali. In generale, si sono aperti, soprattutto al termine dell’emergenza sanitaria, inesplorati orizzonti e insperate prospettive nel rapporto trilaterale tra il lavoratore, la prestazione lavorativa e la tecnologia.
In questa complessità, sono attualissime almeno due questioni. La prima è di respiro sistematico e strutturale e riguarda l’utilizzo delle tecnologie dell’informazione per semplificare e modernizzare alcuni segmenti e momenti dell’attività lavorativa e, più in generale, dell’organizzazione aziendale. Ad esempio, l’utilizzo dei software di videoconferenza in sostituzione delle riunioni tradizionali, ma anche la gestione digitalizzata delle attività, dei documenti, delle pratiche. In questa direzione, già esisteva una tendenza che è stata catalizzata e velocizzata dall’emergenza pandemica e che obbedisce, nel profondo, a ragioni di ottimizzazione delle risorse umane e strutturali. Analoghe considerazioni valgono ovviamente anche per il pubblico impiego e più in generale per l’attività amministrativa, in cui l’utilizzo della tecnologia è rilevante proprio al fine di migliorare i risultati in termini di efficienza, efficacia ed economicità (dunque nella prospettiva della moderna amministrazione “smart”, su cui molto si concentrano fonti normative interne ed europee). Eppure ancora molto si potrebbe e dovrebbe fare in questa direzione.
Una seconda questione, di assoluta rilevanza soprattutto in tempi recenti, riguarda invece il rapporto di lavoro in senso stretto: si tratta dello “smartworking”, anche detto lavoro agile. Smartworking non è un diverso tipo di lavoro, bensì semplicemente una nuova modalità di svolgere la propria prestazione lavorativa “da remoto”, ossia senza recarsi materialmente in ufficio, utilizzando le tecnologie dell’informazione come mezzo. Si tratta ovviamente di una prospettiva possibile per quei lavori che non richiedono interventi materiali (o comunque la presenza fisica costante), ma che comportano essenzialmente la elaborazione di pratiche in telematico. Lo smartworking, soprattutto quando riguarda una parte dominante dell’attività lavorativa, conduce alla “dematerializzazione” del luogo di lavoro. La prestazione si svolge infatti tramite il mezzo telematico e non rileva la posizione specifica da cui il lavoratore è effettivamente collegato alla rete. In sostanza, lo smartworking conduce al potenziale affermarsi dell’universo digitale come nuovo “ambiente” di lavoro, un ecosistema autonomo distaccato dalla materialità. In questa dimensione cambia anche in certa misura la sostanza della prestazione lavorativa, in particolare è valorizzata sempre più come unità di misura effettiva del lavoro il risultato conseguito, piuttosto che il tempo impiegato.
La parentesi pandemica ha consentito di sperimentare questa modalità di lavoro in modo sistematico. Alcune imprese, ad esempio, hanno constatato come l’impiego del lavoro agile in favore dei propri dipendenti consenta di mantenere comunque alti gli standard di produttività comprimendo per altro verso i costi di gestione (principalmente discendenti dal mantenimento delle sedi e delle infrastrutture). Potenzialmente, con il lavoro agile, il numero necessario di postazioni materiali di lavoro va infatti sempre più riducendosi e intere sedi potrebbero essere dismesse.
Probabilmente il lavoro agile meriterebbe oggi una disciplina sistematica, integrata dalla contrattazione collettiva, che dia definitiva sistemazione a molti aspetti rimasti in parte incerti e indefiniti. L’emergenza sanitaria ha infatti costretto tanto il settore pubblico quanto gli operatori privati alla forzata sperimentazione di forme agili di lavoro, consentendo di verificarne gli effetti concreti, ma ha lasciato all’esito un insieme frammentario di norme e disposizioni non armonicamente sussumibili in un corpo unico. Oggi, con una nuova prospettiva di lungo periodo, i dati dell’esperienza pratica raccolti in pandemia dovrebbero costituire la base per ripensare il sistema anche “a regime”. In particolare, lo svolgimento da remoto della prestazione lavorativa impone di ripensare alcuni dogmi classici propri del lavoro in presenza e di rimodellare tutele e diritti del dipendente in funzione della diversa modalità di espletamento della prestazione.
C’è poi un altro tema, delicato e complesso. L’adozione capillare di forme di lavoro agile (soprattutto in modalità full remote working) è potenzialmente idonea a determinare riflessi di sistema notevoli sul piano sociale ed economico. Con lo smartworking le postazioni di lavoro non sono più concentrare nei locali aziendali, ma vengono delocalizzate e questo incide in modo significativo e apprezzabile anche sulle dinamiche sociali ed economiche. Ad esempio, la necessità di recarsi fisicamente al lavoro ha generato in passato e genera ancora oggi il fenomeno del pendolarismo, ma soprattutto la stabile migrazione verso i grandi centri urbani. A livello macroscopico, ha prodotto l’ispessimento delle grandi città, in cui si concentrano un gran numero di persone per ragioni di lavoro. Il lavoro agile consentirebbe infatti la permanenza nelle piccole città e nelle province soprattutto dei giovani lavoratori, sino a oggi spesso costretti a spostarsi per raggiungere sedi di servizio concentrate nelle grandi mete, con negative ricadute sull’ecosistema anche economico territoriale. Una razionale valorizzazione dello smartworking inciderebbe quindi in modo immediato e virtuoso sulla concentrazione umana nei piccoli e medi centri, con riflessi di sistema sulle economie locali.
Articolo pubblicato su Il Quotidiano del Sud – L’Altravoce dei ventenni