Dieci anni dopo l’ultima crisi colossale che ha investito l’Europa, il vecchio continente si trova oggi, ancora una volta, a fare i conti con una ben più grande e complessa della scorsa, che già bastava a trattenerci in una quarantena economica e sociale, privi di slanci verso una ripresa effettiva e palpabile.
Peraltro, la crisi cui sembriamo andare incontro appare ben più drammatica rispetto alla precedente, ciò a causa della molteplicità dei fattori e dei profili di rischio che l’emergenza Covid-19 ha inevitabilmente compromesso: criticità non solo relative agli aspetti sanitari e sociali, ma anche concernenti più segnatamente i settori dell’economia e del lavoro. Come ha spiegato il Premio Nobel per l’economia Joseph Stiglitz annunciando che la crisi che seguirà sarà ben più dura di quella di allora, mentre nel 2008 abbiamo avuto una crisi di tipo finanziario, da tanti osservatori dell’economia diagnosticata già in precedenza, la crisi attuale invece è più complicata. Non è una crisi finanziaria, ma tocca nel profondo il sistema di domanda e offerta, colpendo in modo particolare soprattutto l’offerta aggregata come corollario ineluttabile di un arresto della produzione senza precedenti.
Volendo delineare il quadro della situazione, secondo le previsioni della Commissione Europea per l’Eurozona il calo nel 2020 sarà del 7,7% e per l’intera Unione del 7,4% del Pil. Nel 2020 sarà la Grecia, tra i Paesi Ue, a registrare il maggiore crollo del Prodotto interno lordo con una flessione del 9,7%, seguita dall’Italia, con un calo del -9,5%, dalla Spagna (-9,4%) e dala Francia (-8,2%), mentre la Germania dovrebbe assestarsi su una flessione del Pil pari a 6,5 %, che comunque è la peggiore dal secondo dopoguerra. Basti pensare che il nostro Documento di economia e finanza calcolava anche un debito in rialzo fino al 155% del Pil nazionale, mentre per Bruxelles raggiungerà il 158,9% nel 2020. Sempre secondo le analisi della Commissione Ue inoltre l’impatto della pandemia sul mercato del lavoro dovrebbe provocare un aumento del 9% della disoccupazione europea nel 2020, che in Italia dovrebbe assestarsi secondo le stime all’11,8%.
Mutano le crisi, la depressione globale avanza minacciando il benessere economico e sociale dei cittadini europei per l’ennesima volta, ma le domande in Europa, quella reale, quella ancorata agli egoismi nazionali col brutto vizio di mettersi in bocca frasi come “l’Europa è solidarietà”, sono sempre le stesse.
L’Europa attualmente è solidarietà con gli interessi: finanza. E le crisi come questa o quella precedente mettono in evidenza tutte le inadeguatezze strutturali, istituzionali e politiche di un sistema composto da Stati che stanno mettendo in atto condotte di evitamento simili a quelle dei pazienti più reticenti in psicoterapia. Gli Stati dell’Unione devono fare i conti con un’esigenza di riforma nata nello stesso momento in cui si dava attuazione all’ultimo Trattato, quello di Lisbona, non a caso denominato “Trattato di Riforma”, durante il quale è scoppiata proprio quella crisi economica e finanziaria che ha portato molti di quei nodi al pettine, mettendo a nudo tanto dell’ipocrisia di cui è profusa la politica europea. La crisi nata a seguito dalla pandemia in corso, invece, ha portato a galla la spaccatura netta tra un’Europa del Sud e un’Europa del Nord in cui la trazione germanocentrica è preponderante. Il paternalismo filotedesco è il fil rouge sul quale si è retto il canovaccio europeo degli ultimi anni: dalle politiche di austerità al fiscal compact, fino alla questione dei migranti e per finire oggi con la tragica mancanza di solidarietà dimostrata nei confronti dei Paesi più colpiti dalla pandemia da Germania, Olanda, Austria e dagli altri Stati membri dell’UE. Sempre gli stessi. Tutto ciò fa emergere due realtà con cui fare pace: da un lato, questi atteggiamenti oltre che incoraggiare l’ascesa dei sovranisti nei paesi del sud, fornendogli ragioni che altrimenti non avrebbero avuto, non rappresentano altro che una diversa espressione del sovranismo europeo, quello “alla tedesca”; dall’altro lato, mostra con chiarezza che l’Europa per la maggior parte di quegli Stati rappresenta più un mezzo che un fine a cui tendere.
È così che si realizza il passaggio dall’Europa dei popoli agli “Stati dell’Europa”, in una prospettiva che perde completamente di lungimiranza e che fa cadere nel vuoto il pensiero ed il sogno di chi l’Unione Europea l’ha fondata per davvero. Perché sia chiaro, per quanto la Germania possa diventare un soggetto economico competitivo, resterebbe comunque il pesce più grande solo nel piccolo lago europeo, ma quando quello stesso Paese dovesse venire a confrontarsi con i prossimi grandi squali dell’economia mondiale come Cina, Indonesia, Brasile e India, il rischio di diventare l’ultimo anello della catena alimentare è una certezza più che una semplice probabilità.
Sono passati oltre 150 anni da quell’agosto del 1849 quando Victor Hugo alla Conferenza internazionale sulla pace di Parigi preconizzava gli Stati Uniti d’Europa, immaginando un giorno in cui « tutte, nazioni del continente, senza perdere le vostre qualità distinte e le vostre gloriose individualità vi stringerete in un’unità superiore e costruirete la fratellanza europea» un giorno in cui « le pallottole e le granate saranno sostituite dal diritto di voto, dal suffragio universale dei popoli, dal tribunale arbitrale di un Senato grande e sovrano che sarà per l’Europa ciò che il Parlamento è per l’Inghilterra». Quel giorno, caro Victor, stenta ad arrivare ed oggi l’idea degli Stati Uniti d’Europa ha perso gran parte della sua potenza persuasiva. Quel che è certo è che l’attuale costruzione europea, stretta tra la contraddizione di non essere né una Confederazione, né una Federazione, sconta tutti i limiti di struttura e d’azione del suo essere un’entità sui generis, al cui interno, a dispetto di quanto si afferma, gli Stati sono pienamente centrali e sovrani; certo, alcuni più di altri. Resta da chiedersi dunque se quegli Stati Uniti d’Europa non siano perciò uno sbocco possibile e necessario di questo impasse o piuttosto un’utopia da lasciare ai racconti della storia risorgimentale. Quel che è certo però è che le occasioni per un cambiamento non mancano e rappresentano delle improcrastinabili opportunità, perché come affermava Churchill «le peggiori crisi sono quelle che si sprecano».
Già pubblicato, in versione ridotta, su Quotidiano del Sud – L’Altravoce dei Ventenni 11/5/2020