Rifugiati ambientali: il clima fa vittime come le guerre

950 eventi metereologici estremi. Circa sette milioni di persone sfollate dalle loro abitazioni. Questi i numeri che emergono da uno rapporto dell’Internal Displacement Monitoring Centre, basati sui dati forniti dai governi, dalle Nazioni Unite e dalle organizzazioni umanitarie, solamente per il periodo di riferimento gennaio-giugno 2019.

Il ciclone Vayu ha distrutto diverse città indiane (circa trecentomila sfollati); le inondazioni e i maremoti hanno indebolito ancor di più gli ecosistemi delle Filippine (quattrocentomila), dell’Etiopia (duecentomila), della Bolivia (centomila), già particolarmente provati dallo sfruttamento incontrollato delle risorse naturali; e così anche le gravi siccità in Afghanistan e in Somalia, il ciclone tropicale Gita a Samoa, l’evaporazione del lago Ciad, le inondazioni in Pakistan, senza contare le conseguenze dell’uragano Dorian che ha colpito le Bahamas nel settembre del 2019, non incluse nell’indagine dell’IDMC,  o i dati che provengono dalla situazione del Mekong in Asia; quest’ultimo è la fonte di sussistenza di milioni di persone, che vivono di pesca o di turismo, o che lavorano in prossimità delle grandi dighe, e che oggi – ridotto in molte zone ad isola di plastica – risulta essere uno dei corsi d’acqua più inquinati al mondo.

Non solo. Sempre in Cina, ad esempio, circa un milione di persone è stata costretta a spostarsi dall’area della diga delle Tre Gole, sul fiume Chang Jiang. Tuttavia, la situazione maggiormente preoccupante si registra in Siria, dove concorrono diversi fattori: metà dei 22 milioni di siriani – infatti – viveva fino a pochi anni fa di agricoltura, ma la siccità (manifestatasi soprattutto dopo il 2016) ha fatto collassare completamente l’economia agricola, costringendo le persone a spostarsi verso centri più grandi come Aleppo, Idlib, Damasco o Hama. Il problema, però, è che queste città erano già sull’orlo della guerra civile per via dell’ingresso nel Paese di migliaia di profughi iracheni, in fuga sin dal 2003 a seguito degli attacchi statunitensi; ma c’è di più: il sovraffollamento ha generato – nelle periferie – il proliferarsi dei c.d. slums, baraccopoli di edifici fatiscenti ad altissima densità abitativa, popolati principalmente da giovani senza lavoro e senza speranza. L’insieme di questi elementi ha determinato lo scoppio di rivolte interne, sfociate negli scenari di guerra civile che vediamo – pressoché quotidianamente – nei telegiornali.   

La Banca Mondiale prevede entro il 2050 che 143 milioni di persone si sposteranno per colpa del clima, dato confermato dall’Organizzazione Internazionale per le migrazioni e dall’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati. Si tratta di numeri record, che colpiscono per la loro mole, ma – purtroppo – preoccupano poco rispetto a quanto dovrebbero. Nella parte fortunata del globo, infatti, l’idea che i cambiamenti climatici stiano distruggendo gli equilibri ecosistemici dell’Africa subsahariana, dell’Asia del Sud e dell’America Latina, sembra frutto dell’immaginazione di Isaac Asimov, ma non è così. Nel giro di cinquant’anni, o forse cento, dovremmo lottare contro la desertificazione anche a Roma, e a nulla stanno valendo gli appelli e gli sforzi di chi riesce ad interpretare correttamente questi dati. Purtroppo, noi occidentali siamo affetti dalla cosiddetta sindrome di NIMBY (Not In My Back Yard) e tendiamo a sottovalutare i problemi ambientali, poiché vittime di una disfunzione cognitiva che la letteratura scientifica individua come cognitive behavioral distortion e che – fuori dai tecnicismi – significa semplicemente che, finchè non ne veniamo interessati, non vediamo il tracollo del pianeta.

E’ ora di fare attenzione. Il caso di Ioane Tetiota, il primo rifugiato climatico, può aiutarci a comprendere: si tratta di un cittadino dell’isola di Tarawa Sud, che compone l’arcipelago di Kiribati, nell’Oceano Pacifico, dove i cambiamenti climatici stanno avanzando molto più velocemente che in altre parti del mondo, e l’innalzamento del livello del mare diventa quotidianamente più preoccupante. Tetiota ha visto respingere le proprie istanze sia in Nuova Zelanda – dove era emigrato – che in seno alle Nazioni Unite, a seguito di una denuncia inoltrata al Comitato per i diritti umani; tuttavia, le Nazioni Unite hanno riconosciuto per la prima volta lo status di rifugiato climatico, con ciò aprendo gli occhi della comunità internazionale al fenomeno.

Fa riflettere, allora, il fatto che vediamo quotidianamente esponenti politici di spicco ritenere che le migrazioni siano frutto di libere scelte. Qualcuno ricorderà, ad esempio, quando Giorgia Meloni pronunciò il celebre “perché gli va”, riferendosi a coloro che scappavano dal proprio paese di origine sperando di trovar fortuna in Europa. A prescindere dagli echi fascisti, che non bisogna aver paura di ricordare e sottolineare perché non si ripetano mai più, c’è ben poco da discutere: l’asilo, i permessi umanitari, la richiesta di protezione internazionale, non sono scuse. Può accadere che – surrettiziamente – ci sia chi sfrutti tali condizioni, ma si tratta di casi straordinari, come accade in qualsiasi attività umana, di per sé corruttibile e deviabile. In realtà, scappare dalla guerra, dai soprusi, dalla pulizia etnica sono solo alcune delle ragioni che portano i popoli a migrare. Oltre queste ragioni vi è quella, maggiormente irreversibile seppur meno tangibile, dei cambiamenti climatici. Lo scioglimento dei ghiacciai, l’innalzamento del livello dei mari, le inondazioni – differentemente dalle guerre – sfuggono completamente al controllo umano, e non può non individuarsi la responsabilità degli Stati più evoluti nella distruzione degli ecosistemi. Proprio per tale ultimo motivo è nato infatti il concetto di responsabilità differenziate, derivante dal riconoscimento di una maggiore responsabilità degli Stati più avanzati nell’inquinamento ambientale. E allora, in un certo senso, offrire accoglienza a chi fugge per motivi climatici rappresenta quasi atto dovuto, cui nessuno Stato che si dica civile, secondo coscienza, dovrebbe sottrarsi.


Articolo già pubblicato sul Quotidiano del Sud – l’Altravoce dell’Italia di lunedì 02/03/2020

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Del ‘93, a Roma da molti anni, non perde le sue radici orgogliosamente sannite. Praticante avvocato, grafomane, rincorre da anni la possibilità di definirsi musicista. Molto creativo, riflessivo e incredibilmente curioso. Vive tra le nuvole, e ci sta bene.