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Come affrontare la ripresa: lo smart working negli studi professionali

Quanto e come il mondo del lavoro risenta dell’approccio Smart – come si suol dire – lo scopriremo solo vivendo. E tuttavia, dello “smart working” non si parla da marzo di quest’anno, quando la crisi legata al Covid-19 ne ha comportato l’imposizione, bensì si tratta di un argomento già da tempo discusso da lavoristi ed esperti di economia comportamentale e sociologia.

Il lavoro agile è stato infatti definito nell’ordinamento italiano, ben prima di questo autunno (L. n. 81/2017), come “una modalità di esecuzione del rapporto di lavoro subordinato stabilita mediante accordo tra le parti, anche con forme di organizzazione per fasi, cicli e obiettivi e senza precisi vincoli di orario o di luogo di lavoro, con il possibile utilizzo di strumenti tecnologici per lo svolgimento dell’attività lavorativa”.

Certo, tale definizione appare riduttiva – soprattutto nel contesto odierno – per via della limitazione alle ipotesi di “lavoro subordinato”. Tanto è vero che, nel corso degli anni, molti studi hanno mirato ad ampliarne la nozione, fino a ricomprendervi qualsiasi modalità di lavoro che si discosti dai tradizionali vincoli di luogo ed orario correlati all’espletamento delle mansioni lavorative.

Ciò risulta evidente nel panorama odierno, soprattutto per quanto attiene agli studi professionali.

Parliamo, infatti, di studi dove – per lo più – i professionisti lavorano in regime di partita IVA, quindi in regime autonomo; modello rivoluzionato, seppur “forzatamente”, in ragione della pandemia sin dal D.P.C.M. dell’11 marzo 2020.

Per comprendere meglio il fenomeno, può essere utile ricorrere ad un interessante dato numerico, che ne evidenzia l’incremento.

A partire dal 2012, l’Osservatorio sullo Smart Working del Politecnico di Milano si occupa di studiare i dati sul lavoro agile e, relativamente all’anno 2019 – quindi poco prima dello scoppio della pandemia – erano quasi 500mila gli smart workers attivi in Italia, essenzialmente concentrati (circa il 60%) nelle imprese medio-grandi. Il 20% in più rispetto al 2018 e quasi il 2% dei lavoratori totali.

Lo stesso Osservatorio, non appena diffusasi la pandemia, ha rielaborato i dati, che oggi denotano con chiarezza come il lavoro agile si sia diffuso ampiamente anche nel settore terziario, in particolar modo negli studi professionali, principalmente negli studi di commercialisti ed avvocati.

Circa un terzo dei professionisti attivi in questo settore ha iniziato ad utilizzare le modalità di lavoro agile già prima del D.P.C.M. di marzo e ciò non dovrebbe stupire, se si considera che – in genere – i titolari degli studi di questo tipo, sostanzialmente, sono smart workers a tutto tondo.

Il lavoro di un professionista autonomo si svolge spesso e volentieri al di fuori dei vincoli di luogo e di orario, a volte anche nei giorni festivi, così come – specularmente – è ben possibile che lo stesso professionista, in periodi di minor carico di lavoro, possa operare in maniera più “flessibile” anche in giorni non comunemente intesi come ‘di ferie’.

I potenziali vantaggi di tale modello sono confermati da studi e indagini statistiche, quali ad esempio l’ultimo rapporto di PwC Italia “Smart working e coworking, verso un nuovo modello di lavoro” o le ricerche condotte dal Centro Studi Dondena dell’Università Bocconi, che evidenziano come l’introduzione del modello di smart working comporti evidenti benefici in termini di aumento di produttività e minori assenze dei lavoratori.

Senza contare che lo smart working consente di conciliare la vita professionale con quella familiare, di ottenere maggiore spazio per altri impieghi (anche redditizi), attività sportive o di volontariato, corsi di formazione, ecc.

Non solo: non è possibile non citare anche tutti quegli effetti c.d. indiretti positivi derivanti dall’introduzione del lavoro agile. L’emissione degli agenti inquinanti, ad esempio, o del traffico cittadino ad esse strettamente connesso, o dei risparmi in termini di energia elettrica, di carta stampata e di consumi derivanti dal riscaldamento/raffreddamento degli uffici.

Gli stessi studi, tuttavia, notano che – spesso – a rendere difficile l’introduzione del modello sono lo scarso interesse e/o la resistenza dei datori di lavoro e, soprattutto, la difficoltà a ‘digitalizzare’ determinate attività.

Tali problemi, tuttavia, possono essere superati o con l’alternanza del tempo tra lavoro da remoto e lavoro in presenza durante la settimana lavorativa o, come sperimentato di recente in Finlandia, con la riduzione da cinque a quattro dei giorni lavorativi, cosicchè le due ‘frazioni’ della settimana – quella lavorativa e quella non lavorativa – arriverebbero quasi a pareggiarsi, consentendo da una parte il già citato aumento di produttività e, dall’altra, la possibilità di assicurare anche la prosecuzione di tutte quelle attività non digitalizzate (o difficilmente digitalizzabili).

Certamente, non sono da sottovalutare gli eventuali impatti negativi dello smart working, che molti professionisti hanno già sperimentato durante il Covid: il lavoro a distanza può comportare un’alienazione del lavoratore, connessa alla difficoltà di separare la dimensione professionale da quella privata.

Ad ogni modo, questa difficile fase socioeconomica pone degli interrogativi e delle questioni che è giunta l’ora di affrontare. Non solo lo smart working, ma – ad esempio – il rapporto datore/lavoratore; gli effetti (ormai tristemente celebri) di un atavico digital divide; l’inevitabile sovrapposizione dei modelli di lavoro utilizzati nella P.A. (tradizionalmente un mondo a parte) a quelli delle imprese e degli studi privati; la ‘liquidità’ di orari e luoghi di lavoro; il co-working e via dicendo.

Insomma, alcune interessanti sfide da affrontare e nuovi scenari da analizzare, in una prospettiva di cambiamento generale dell’approccio al “lavoro” – estensivamente inteso – che inevitabilmente verrà rivoluzionato rispetto a come concepito sinora.

Articolo già pubblicato su Il Quotidiano del Sud – l’Altravoce dei Ventenni il 31/08/2020

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