Come da tradizione, nel giorno di Santo Stefano, dopo tre importanti round di sostanziose ma prelibate portate, si conclude il triplete del Natale con un bel brodo e un bel tavolo di gioco.
Eppure quest’anno a casa mia non ho visto alcun mercante in fiera, nessuna tombola, tressette, cucù, poker, niente di niente.
Invece di perdere tutti i miei risparmi (e direi anche fortunatamente vista la mia conclamata sfortuna nel gioco e in amore), ho trascorso la serata distesa accanto al caminetto coccolando il cane con intorno tutta la mia famiglia di malati interisti (sì, anche mia nonna è neroazzurra) sintonizzata su Sky Sport per vedere Inter-Napoli.
“Tutti insieme a casa a vedere l’Inter”,- ho pensato – “che brutta fine ho fatto”.
Quest’anno, infatti, diversamente dalla solita routine sportiva, anche in Italia il calcio non è andato in vacanza: il calendario di serie A non era di rosso e si sono disputate regolarmente tutte le partite in programma secondo lo schema utilizzato da anni ormai dalla Premier League in Inghilterra. Parlo proprio del cosiddetto Boxing Day, una ricorrenza divenuta ormai da secoli l’occasione per la disputa di importanti manifestazioni sportive con notevole afflusso di appassionati, facilitato dal giorno festivo. Originariamente il Boxing Day consisteva nel regalare doni ai meno abbienti: in seguito, i lavoratori, sfruttando il “giorno libero”, decisero di dedicare questa giornata di “pausa” al calcio.
Ecco perché anche oggi durante il Boxing Day si tengono numerosi eventi sportivi che richiamano davvero tantissimi appassionati.
Prima dell’avvento la First Division (l’antenato della Premier League), il 26 dicembre si disputavano partite di ogni genere: tutte partite giocate a livello locale proprio perché il 26 dicembre ci si spostava poco.
La prima partita ufficiosa del Boxing Day risale al 1860 a Sheffield, quando si affrontarono le due squadre più antiche del mondo, lo Sheffield FC che sconfisse 2-0 l’Hallam FC.
Queste partite giocate durante il periodo natalizio attiravano spesso l’affluenzapiù alta di pubblico allo stadio. Anzi, molti spettatori erano occasionali e andavano a vedere una partita di calcio solo a Natale e nel Boxing Day, che ancora oggi rimane una data fissa per molti altri sport, come rugby e ippica.
Ed è proprio questa capacità del calcio di riuscire a riunire, agglomerare, mescolare, appassionare e a far stare insieme che mi ha sempre affascinato.
Essendo cresciuta con due fratelli appartenenti a due generazioni diverse ho visto passare da casa tanti bambini di ogni età e, ripensandoci, la cosa bella è che tutti questi ragazzini parlavano la stessa lingua, quella che si parla con i piedi e forse con il cuore: la lingua internazionale del pallone.
Io li guardavo giocare e un po’ li invidiavo!
Cercavo di capire cosa fosse un cross o una rimessa laterale e il mio sogno più grande era di riuscire a fare un colpo di testa senza spaccarmela, il tutto ovviamente con esito costantemente negativo; però ho sempre amato osservare i miei fratelli e i miei amici durante le partite di calcetto, guardare le partite e seguire attivamente il campionato con le minime competenze per capirne esattamente le dinamiche e ho sempre ammirato la passione che si legge negli occhi di qualsiasi uomo quando si parla della propria squadra del cuore.
Forse raramente si riflette sull’importanza di questo gioco che all’apparenza sembra semplice e un po’ banale; ed è per questo che ho scambiato quattro chiacchiere con due amici per capirne qualcosa di più.
E per mia sorpresa, entrambi, seppur involontariamente, hanno confermato il mio pensiero in relazione a questo incredibile “gioco”.
Tutti e due mi hanno confessato di amare il calcio in maniera viscerale: amano guardarlo comodamente in tv la domenica dal divano o partecipando attivamente e live allo stadio. C’è chi poi, come Riccardo, che ha deciso di fare del calcio la sua occupazione principale e di vederlo da un’altra angolazione e c’è chi come Matteo che invece, dedicatosi ad altro nella vita, vede il calcio come momento ricreativo e di sfogo per trascorrere il lunedì sera in compagnia dei suoi amici (e non solo).
Riccardo Quintieri, che ama giocare a calcetto ma non troppo, ha sempre avuto il sogno di entrare a far parte del mondo del calcio dirigenziale.
Visto che tutti i sogni per diventare realtà devono essere inseguiti, Riccardo ha ben pensato, insieme ad altri quattro soci, di riesumare una storica squadra del palcoscenico bruzio e di cominciare questa nuova avventura nella dirigenza di una vera società calcistica.
E così, da questa comunione di intenti, nasce il progetto della rinascita della A.C. Morrone – squadra fondata nel 1953 e non iscritta ad alcun campionato dal ’93.
La nuova società sportiva dilettantistica ha ritenuto di ripartire dalle basi e fare piccoli passi per volta: definitosi il progetto di rinascita, nel settembre del 2015 i soci fondatori hanno pertanto iscritto la squadra in terza categoria per consentire alla stessa di ricominciare da capo senza saltare nessuna fase dando quindi la possibilità alla società stessa e alla squadra di iniziare insieme un percorso di formazione e crescita: Riccardo mi confessava che il suo obiettivo maggioritario era quello di portare un format professionistico nel calcio dilettantistico.
Proprio per questo la Morrone ha pensato di fare le cose per bene e dal 2015 ad oggi la società è una vera e propria realtà calcistica: la squadra si allena al campo del Marca e nel 2017 è stata istituita la sede della società a Piazza Loreto; a Marco Caputo è stata devoluta la cura dei profili social e la gestione del marketing e delle comunicazioni.
Ad oggi la A.C. Morrone ha vinto orgogliosamente 3 campionati su 3.
Riccardo, Presidente e socio fondatore della Morrone, quando gli chiedo se si sente soddisfatto di quello che ha costruito, mi risponde:
“Assolutamente sì: il calcio per me non è mai stato solo un gioco. Io, come i miei soci, lo staff, e i nostri calciatori siamo animati da una fortissima passione personale per il calcio. Il calcio è, secondo me, lo sport per eccellenza: come fa un bambino a crescere senza tirare calci ad un pallone? E’ impossibile. Il calcio è predominante nella vita di ogni bambino, ragazzo o uomo. Ovviamente lo si vive in maniera diversa, a gradi differenti e con obiettivi differenti: io ho visto nel calcio uno stimolo a livello dirigenziale, mentre ti assicuro che per tanti ragazzi, alcuni dei quali giocano in squadra, il calcio è scelto come mezzo di sostentamento. C’è chi pensa “so giocare a calcio e allora del calcio faccio la mia fortuna”. C’è chi poi lo vede come strumento per emergere, per cambiare vita.”.
Proprio per queste ragioni la società della Morrone ha quest’anno istituito la prima scuola calcio in collaborazione con l’Asd Popilbianco, la “Morrone Academy Popilbianco”, che si prefigge lo scopo di costruire un settore giovanile sia per dare sempre più un futuro certo alla squadra sia per introdurre sempre più bambini nel fantastico mondo del calcio.
“Ti spiego meglio: la nostra società ha due squadre che sono la A. C. Morrone, l’attuale squadra in Promozione, e la Juniores ovvero la squadra formata dalle annate ’99, 2000 e 2001, i famosi “under” che entrano di diritto nella squadra principale. Invece, l’Academy è una vera e propria scuola calcio con 5 sottocategorie in base all’età di cui i più piccoli (classe 2011, 2012 e 2013) appartengono ai “primi calci”. Siamo tutti convinti che oggi “la Scuola Calcio” non debba solo insegnare il gioco più bello del mondo ma debba insegnare anche ad essere “individui pensanti e uomini con un’identità chiara” e per questa ragione lo scopo dell’Academy è quella di realizzare contestualmente un progetto di crescita sportiva ma soprattutto di formazione individuale a 360 gradi per ogni bambino che si affaccia al mondo dello sport. Perciò sono state pensate delle attività extracalcistiche come ad esempio lezioni di nutrizione o lezioni di inglese perché credo che il calcio sia qualcosa che non si fa solo in campo; anzi credo – e lo dico forse in maniera cruda – che se nella vita sai tirare solo calci ad un pallone non vai da nessuna parte: noi vogliamo che i nostri ragazzi diventino dei veri uomini e che sappiano vincere non solo nei 90’ in campo ma sempre e nella vita vera.”
Volendo riassumere quindi in breve l’animadella Morrone….?
“Le nostre idee, le nostre passioni sono riassunte nel manifesto che abbiamo pubblicato online al sito web della società ed è un pensiero riassumibile nei seguenti punti: il rispetto dell’avversario e della tifoseria altrui; l’idea del calcio che riparte dal basso e dalla prima idea sulla quale questo sport si basa che è il divertimento; l’intento di promuovere iniziative Sociali attraverso lo sport; la condivisione e la tutela delle idee, la salute e la fede calcistica altrui; ma soprattutto la Lealtà tra i membri della stessa Squadra. Il tutto per riportare la sportività e l’amore per il calcio, ormai smarrito negli ultimi anni, per costruire una squadra verso la quale la Città e la Gente possano rispecchiarsi con orgoglio e appartenenza.”
Sono sorpresa e contenta di vedere tutto questo insieme di idee e di valori nascere e realizzarsi grazie all’unione di giovani ragazzi che hanno intrapreso un’avventura partendo dal basso e sormontando tutti gli ostacoli iniziali. Mi chiedo solo come sia possibile che, nonostante la giovane età del Presidente, Riccardo mantenga la sua professionalità e credibilità anche nei confronti dei suoi coetanei: in certi contesti l’amicizia non può surclassare le posizioni?
“Non ho paura della mia giovane età: la gente ti prende sul serio se ti fai prendere sul serio, dipende sempre da come ti presenti. Anche perché non è come si pensa: questo è un lavoro a tutti gli effetti e deve piacerti altrimenti è pesante sia economicamente che a livello organizzativo. E allora se ti piace “cacci fuori le palle” e ti fai valere e non importa più se hai 25 anni o ne hai di più. Io sono il Presidente della Morrone ma sono anche amico di tutta la società, di tutto lo staff e di tutta la squadra. Insieme usciamo a cena, facciamo viaggi, condividiamo tantissimi momenti e ci divertiamo, siamo una famiglia e c’è un ottimo rapporto confidenziale. Ma quando si parla da Presidente a Giocatore c’è un estremo rispetto dei ruoli ed è questa la chiave vincente: nonostante siamo per lo più tutti coetanei sappiamo quando è il momento di divertirci e quando il momento di prenderci sul serio.”
A differenza di Riccardo, Matteo Petramala è un giovane avvocato, tifoso dell’Inter ma con il cuore rossoblù. Mentre Riccardo è nel business del calcio, Matteo è il capitano di una squadra appartenente alla Seria A1 del CSI-Cosenza di calcio a cinque, l’Asd Atletico Futsal.
Com’è nato l’Atletico Futsal?
“L’Atletico è, prima che una squadra di calcio, una squadra di amici. Questa squadra è nata nel gennaio del 2016 dalle ceneri dell’Atletico Micatanto. Tra di noi la prendiamo molto seriamente ma il nostro può essere definito, per intenderci, come il “torneo della parrocchia”.
Siamo una squadra completamente autogestita e autofinanziata grazie a piccoli sponsor (un grazie particolare va al Vintage di Cosenza) e giochiamo sotto la supervisione del Mister Kevin Marulla e di cui io sono orgogliosamente il Capitano. Dico orgogliosamente perché, nonostante io stesso avessi indetto una votazione per confermare la mia posizione, i miei compagni mi hanno scelto come loro Capitano all’unanimità.
I nostri originari colori erano il giallo e blu, ma sembravamo troppo gentili agli occhi degli avversari e allora abbiamo optato per la divisa nero-gialla per evidenziare maggiormente la nostra grinta durante le partite: noi giochiamo ogni lunedì al Futsal Club di Cosenza (quando giochiamo in casa) e siamo essenzialmente un gruppo variegato ed eterogeneo composto da ragazzi classe ’87-’99 appartenenti ad ambiti lavorativi differenti. E penso che sia esattamente questa la nostra forza, la diversità rafforzata da una comunione di intenti: la passione per questo fantastico gioco, il bisogno forse spasmodico di competere e la voglia di vincere che poi effettivamente ci portano il più delle volte alla vittoria.”
Per Matteo e per i calciatori dell’Atletico la partita del lunedì è una valvola di sfogo, una ribellione e una evasione dalla quotidianità del lavoro o dello studio e molto di più.
“Noi ormai siamo veri amici e abbiamo legato sia dentro che fuori dal campo; a dire la verità quasi quasi giochiamo più per la cena del lunedì visto che più che un “lavoro” o un impegno, per noi il campionato è l’occasione per stare insieme e passare una bella serata a modo nostro.
Anche quando vinciamo, la nostra è sempre una vittoria di gruppo e mai individuale.”
“Nel calcio a cinque è imprescindibile un legame forte fra i componenti del gruppo perché durante le partite siamo sempre interscambiabili: infatti giocando secondo le regole del calcio a 5 ci si stanca troppo presto, soprattutto se hai alle spalle una pesante giornata di lavoro o tanti pensieri in testa (- senza contare gli anni che iniziano a farsi sentire). Mi chiedi chi è il Bomber dell’Atletico? Dovrei dirti Amato altrimenti si arrabbia, ma anche Barone e Dodaro segnano parecchio: la verità però è che nella squadra ognuno di noi è prezioso e indispensabile.”
Quindi, visto il fraterno rapporto che vi unisce, per i tuoi compagni di squadra sei sempre e solo Matteo anche in campo o quando indossi le scarpette diventi il Capitano?
“Devo ammettere che ho preso con molta responsabilità il mio ruolo nella squadra e credo molto nella funzione di guida che ha un capitano all’interno di un gruppo di giovani che giocano a calcio.
Per l’Atletico Futsal vige una sola regola: rispetto reciproco dei ruoli. Spesso capita che durante le partite scoppino tensioni, si inizino a dire parole di troppo, o si entri con eccessiva aggressività contro l’avversario: allora io intervengo. Pretendo che chi ha sbagliato chieda scusa anche se di primo acchito questa mia pretesa può produrre un po’ di malcontento nel giocatore; ma i miei compagni lo sanno e non inveiscono mai contro queste mie prese di posizione. Anche perché come pretendo il rispetto dell’avversario io pretendo ugualmente il rispetto dall’avversario: se per caso qualcuno durante una partita o anche fuori dal campo è irrispettoso fisicamente o anche solo verbalmente contro la squadra, perdo il senno e faccio di tutto per ottenere le scuse dell’avversario imponendo, con le buone, il rispetto per tutti i giocatori e per il gioco in sé. In questo il calcio è un’arena e come avvicina così allontana: la fazione opposta è vista come un nemico da “abbattere”, però, sempre nei limiti della correttezza. Ad ogni modo nella squadra regna una bellissima armonia, sia in campo, sia negli spogliatoi che fuori da ogni contesto calcistico. Ci vogliamo bene! Il gruppo viene prima di tutto e la stima reciproca che abbiamo l’un l’altro ci consente di realizzare sempre i risultati migliori: poi si, vincere è sempre un’emozione, ma ciò che conta per noi è divertirci, e devo dire la verità, è una cosa che ci riesce molto bene.”
A questo punto mi domando se il calcio sia l’unico sport capace di creare tutto questo ammasso di emozioni, di far nascere tutte queste intime relazioni oppure no.
“Non credo che sia l’unico sport ad aggregare così tanti ragazzi, ma credo che sia l’unico sport a farlo con così tanto trasporto. Io penso che il calcio sia IL linguaggio universale, uno strumento per abbattere le barriere della timidezza e che apre le porte alla conoscenza. Ovunque tu sia, se vedi un pallone e un gruppo di ragazzi che giocano allora è certo che dopo pochi secondi tu starai giocando con loro: perché il calcio è coinvolgente, non ha colori, non ha età. Poi è paradossale ma sembra quasi che abbia dei riflessi sociali incontrovertibili: i “bravi a calcio” sono sospinti, conosciuti e rispettati dal gruppo. E’ quasi come se saper giocare a calcio ti legittimi a piacere.
Il calcio è, credo, una passione indomabile e a cui non si può apporre alcun limite: si inizia da bambini e non si finisce mai di amarlo. Arriva un’età in cui gli anni iniziano a farsi sentire e anche la partitella con gli amici diventa più faticosa e a questo bisogna aggiungervi quell’insorgente emotività del non riuscire più come una volta, e questo ti impone di decelerare un po’: ma la passione, quella non conosce freni.”
Ebbene, da queste quattro chiacchiere con Riccardo e Matteo deduco che gli elementi essenziali per riuscire a giocare a calcio, dai settori professionali a quelli amatoriali, sono due: il rispetto reciproco in squadra e in campo e la voglia di divertirsi.
E mi è rimasta impressa una scena descritta da Pif nel suo nuovo libro “..che Dio perdona a tutti“: chiamato dagli amici di quartiere a fare il portiere per le sue rinomate incapacità di giocare in qualsiasi altra posizione e ripreso più volte dagli amici per i gol subiti, il protagonista si lascia alla considerazione secondo cui il calcio è un gioco e si gioca per divertirsi, per costituire un momento di alienazione dalla realtà, ma anche per sfogare rabbia e stanchezza oltre che per creare intese. Per questo forse qualche volta viene preso troppo seriamente: per ogni difficoltà della giornata diventa necessaria una buona azione in campo.
Da sempre e in ogni dove, quindi, il calcio riesce a divenire lo scopo e il mezzo per unire: basti pensare a quanti tifosi sforna di anno in anno e al patema d’animo che in essi nasce durante un derby o in altre partite importanti; basti pensare ai Mondiali, un evento che – in ogni parte del mondo – riunisce amici e sconosciuti e fa ballare, cantare, stringere, piangere e urlare miliardi di persone all’unisono.
E poi vogliamo parlare di quanti partite di calcio a 11, a 8 o a 5 vengono organizzate ad ogni età? O a quante squadre esistono in ogni settore, dalla squadra dei compagni di classe, la squadra che nasce sul posto di lavoro, la squadra estiva, la squadra dei fuori sede?
E la parola Fantacalcio non vi dice niente? L’invenzione che più odio al mondo e che estranea al 100% ogni maschio sulla terra nel fine settimana. Senza, poi, dimenticare le partitelle di calcio a FIFA – che no amici cari, non è vero che durano poco!
Ed è ormai divenuto ineluttabile anche per le donne accettare di amarlo; conosco infatti tante ragazze che giocano e tante altre che tifano spasmodicamente (e ovviamente la maggior parte per la Juventus).
Dobbiamo abbandonarci all’idea che, come canta Brunori, il calcio è davvero l’unica religione del mondo, l’unica religione che sforna fedeli e proseliti senza alcuna sosta: ecco allora gli incredibili miracoli del dio del pallone.
Faccio ancora un’ultima domanda ai miei amici, che ringrazio per la disponibilità e l’accortezza con cui hanno contribuito allo sviluppo di questi pensieri.
Progetti, sogni e aspettative per il futuro?
Riccardo desidera “Sicuramente arricchire, ampliare e perfezionare le attività della scuola calcio.. e poi, sogno la Serie D”.
Per Matteo, invece, il sogno è di non arrendersi mai. Allentare un po’ la presa un giorno ed essere conscio della propria forza ma continuare a giocare a questo bellissimo gioco e non smettere mai di divertirsi.
In allegato le fotografie scattate da Alessia Visciglia all’Asd Atletico Futsal.
Martina, sempre la più piccola dell’annata ‘94, laureata LUISS in Giurisprudenza, si definiva ad otto anni “simpatica, anche se i miei fratelli dicono che parlo troppo. Sono una persona responsabile, riflessiva, apprensiva, equilibrata, e molto sensibile, ma soprattutto un po’ pettegola. Sono allegra, divertente e socievole, mi piace stare in compagnia per scherzare, giocare e raccontare barzellette.” Da allora le cose non sono cambiate: parla sempre tanto, pensa sempre troppo e rimane la solita rompi scatole.Va sempre di corsa, non sa stare ferma e forse mostra troppi denti quando sorride.Ama emozionarsi con le piccole cose e cerca in ogni momento un motivo per sorprendersi.E’ un’inguaribile romantica e a volte, a furia di stare con la testa fra le nuvole, rischia di cadere in qualche burrone, dal quale però, trova sempre la forza di rialzarsi!