Ognuno combatte con le armi che ha: il contributo dei giovani all’emergenza sanitaria

Tra le frasi pronunciate più spesso in queste interminabili giornate di quarantena, tra i rimproveri più ricorrenti e preferiti dai nostri genitori ai nostri nonni, ce n’è una che ho sentito fino allo sfinimento. Una sorta di slogan che viene ripetuto come risposta ad ogni nostro sfogo, un po’ come quando prima di questa emergenza dicevo a mia madre che avevo mal di testa e lei mi liquidava con un classico “ci credo, stai sempre al cellulare”; ma questa risposta non valeva solo per il mal di testa, valeva per qualunque malessere. La colpa è sempre del cellulare. Piccolo inciso: che sia uno strumento utilizzato fin troppo male da noi giovani nessuno lo mette in dubbio, ma non sempre è così e tra poco vi dirò il perché.
Avete capito a quale frase mi riferisco?

“Non lamentatevi: siete chiusi in casa, non siete mica in guerra. I vostri (bis)nonni dovevano andare a combattere, voi dovete solo stare sul divano”. Quante volte avete sentito questa frase? Quante volte vi siete sentiti impotenti e inutili?

Quando si presentava un nemico tanto pericoloso, i nostri antenati erano costretti ad imbracciare un fucile e andare a combattere, sacrificando, se necessario, la loro vita per il bene della collettività. Noi dobbiamo semplicemente stare in casa e non lamentarci. Essi erano chiamati a compiere il gesto più atroce che esista: utilizzare quel fucile per uccidere. Noi al massimo dobbiamo ammazzare il tempo, che non è proprio la stessa cosa. Quindi, hanno ragione quando dicono che non dobbiamo lamentarci; è vero che non dobbiamo andare in trincea, ma anche noi stiamo combattendo una guerra: non siamo fisicamente al fronte, né siamo bombardati a distanza da missili, droni o altre armi tecnologiche ed innovative ma la nostra è una guerra 3.0 e come ogni guerra, per essere vinta, necessita di rigore, responsabilità e sacrifici. Da parte di tutti.
Le armi a nostra disposizione sono, per cominciare, spirito di sacrificio e senso di responsabilità. Questi ci obbligano a restare a casa e ad attenerci alle prescrizioni che ci sono state imposte per contrastare il diffondersi del virus e salvaguardare la salute pubblica. Poi, la tecnologia e in particolare il mondo dei social con la sua risonanza, possono essere sfruttati per la prima volta non per alimentare il nostro ego e metterci in mostra bensì per diffondere e far conoscere a tutti le diverse iniziative benefiche e raccolte fondi promosse in favore degli ospedali o per allietare le giornate e portare un sorriso in tutte le case d’Italia, come, fra l’altro, stanno facendo tantissimi artisti e non. E, per finire, l’amore.
Amore verso i nostri cari, verso i nostri genitori e i nostri nonni, verosimilmente più deboli ed esposti di noi. Dobbiamo resistere soprattutto per loro: maggiore sarà il rigore con cui ci atterremo alle regole e prima potremo riabbracciarli e tornare alla nostra vita.
Ciò che mi ha colpito maggiormente è il fatto che nonostante siamo stati improvvisamente chiamati a fronteggiare e pagare le conseguenze di un qualcosa di cui noi non abbiamo colpe, ovvero politiche scellerate perpetuate per anni – e a tutti i livelli e latitudini – in tema di sanità, che hanno depauperato e depredato il nostro sistema sanitario rendendolo incapace di fronteggiare una simile emergenza, non siamo rimasti con le mani in mano.
Potevamo limitarci a scaricare la colpa sugli altri e cullarci del fatto che i giovani in salute corrono meno rischi degli altri, potevamo davvero oziare sul divano in attesa che gli altri si dessero da fare per noi, ma non lo abbiamo fatto. Abbiamo fatto ricorso alle armi di cui eravamo dotati, i tanto criticati cellulari e social network, e li abbiamo utilizzati per qualcosa di utile: tantissime sono state le raccolte fondi promosse in tutta Italia dai giovani per sostenere gli ospedali, i medici e gli operatori sanitari che combattono – loro per davvero – questa guerra in prima linea e mettono ogni giorno a rischio la propria vita per tutti noi.
Potevamo restare semplici spettatori in attesa di tempi migliori, ma nel nostro piccolo abbiamo provato a reagire, a renderci utili e a mettere una pezza dove possibile. Come? Donando. Donando parte dei nostri risparmi o magari quello che avremmo speso in queste settimane se non ci fossimo trovati in questa situazione. Forse questa è una forma di responsabilità maggiore di quella dei nostri padri e nonni che per decenni hanno chiuso gli occhi e si sono voltati dall’altra parte mentre si speculava sulla sanità, noncuranti del problema perché magari non li riguardava direttamente. D’altronde è la storia più vecchia del mondo: finché non mi tocca personalmente, finché un mio parente, amico o conoscente non ci rimette la vita, non è un mio problema. Oggi, però, ci troviamo di fronte ad un’emergenza sanitaria globale: il Coronavirus è una pandemia, un qualcosa che riguarda per la prima volta realmente tutti.

Per questo sono orgoglioso dei tantissimi ragazzi che, sfruttando gli strumenti messi a disposizione dalla tecnologia, sono scesi in guerra promuovendo diverse raccolte fondi e donando quanto nelle loro possibilità.
Molti sostengono che sia un qualcosa di inutile, una semplice goccia nel mare, e visto che il mare è enorme non servirà a nulla. Si sbagliano. È un po’ come i depuratori presenti nei nostri litorali: non possono ripulire tutto il mare ma se correttamente azionati possono salvaguardare la nostra costa e consentirci di nuotare in acque limpide. Allo stesso modo queste donazioni non serviranno a rimediare ai danni della mala gestione, e quindi a ripulire l’intero sistema sanitario, ma serviranno a dotare i medici e tutti gli operatori sanitari di tutte le protezioni necessarie, ad acquistare macchinari che occorrono per aumentare i posti letto in rianimazione, a salvaguardare parte della nostra “costa”, quella parte più fragile e a cui siamo indelebilmente legati: i nostri cari.
Perciò non pensate che la nostra battaglia sia superflua, non pensate che restare a casa e donare sia inutile. È un piccolo gesto che può servire a tanto.

Se ognuno contribuirà a suo modo, se ognuno si comporterà responsabilmente, presto vinceremo questa guerra e potremo dire di averlo fatto combattendo tutti insieme.

Osvaldo Vetere
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Osvaldo, 23 anni, Cosentino D.O.C. e studente romano di giurisprudenza da ormai 5 anni. Ha lasciato la sua città ma non è tra quelli che la rinnegano, anzi, è visceralmente legato ad essa, tanto che, appena può, torna sempre a casa. In poche parole: terrone e fiero di esserlo. Appassionato di sport - sopratutto del suo lato romantico - il suo cuore è da sempre RossoBlù. Gli piace viaggiare e scoprire cose nuove, ama la natura e in particolare il mare. Si dice sia critico e un po’ polemico. Non gli piacciono le cose facili, odia gli opportunismi e le ingiustizie in generale.