L’avvocato Castaldi aveva aperto gli occhi ancor prima che la sua sveglia suonasse. L’orologio del suo smartphone di ultimissima generazione segnava le 6,30: l’orario perfetto per iniziare la giornata ed arrivare in tempo all’interrogatorio delle nove. Un interrogatorio complesso per il quale si era preparato tutto il weekend e che gli aveva portato via ore e ore di sonno che adesso rimpiangeva.
Si trattava di un caso di stalking che stava creando un grande clamore mediatico che Castaldi non era abituato a reggere. Non perché non ne fosse capace, ma perché il suo modo di intendere la professione gli impediva di apprezzare qualsiasi intromissione della stampa.
Era sempre stato convinto che i processi si fanno nelle aule di tribunale, non sui giornali o nei salotti televisivi e non riusciva, malgrado si sforzasse, a comprendere alcuni suoi colleghi che sembravano provare più piacere nell’esporre le proprie tesi difensive sotto le luci televisive, anziché nelle dismesse aule di tribunale.
Mentre era perso nelle sue riflessioni, la moka aveva iniziato a fischiare e l’odore del caffè aveva invaso tutta la cucina. Con ancora la crema da barba sul viso, si era diretto in cucina per spegnere il gas e versarsi una tazzina di caffè che avrebbe bevuto, come sempre, solo una volta freddo.
Aveva deciso di indossare il suo abito migliore e la cravatta che era convinto gli portasse fortuna. Era una cravatta che le due figlie gli avevano comprato in un famoso negozio romano: la base era di un verde smeraldo tendente al petrolio decorato da alcuni piccoli quadri blu che si sposavano perfettamente con il verde e con il suo completo blu.
Bevve al volo il caffè, afferrò le chiavi della macchina, la borsa con tutti i documenti pronta già da giorni e scese le scale di corsa, pur essendo perfettamente in orario. Aveva intenzione di arrivare in anticipo in Tribunale per evitare la ressa dei giornalisti all’entrata che avrebbero cercato in tutti i modi di estorcergli anche una solo parola da poter strumentalizzare ed utilizzare in prima pagina.
A dire il vero voleva anche evitare le lunghe code che, nei giorni particolarmente movimentati, si formavano fuori dal Tribunale per accedervi.
La sua Fiat sfrecciava sul lungomare della città e dal finestrino semi aperto entrava aria fresca che preannunciava l’arrivo imminente dell’inverno. Il sole era già alto nel cielo e i suoi raggi si riflettevano sul mare immobile. La città era ancora semideserta, poche macchine in giro e poche persone a piedi. Ogni volta che aveva un processo o un interrogatorio importante, amava assistere al risveglio della città. Trovava sempre affascinante il momento di mezzo tra la città che dorme e la città sveglia. Era in quel momento che, secondo l’avvocato, nascevano le cose migliori: le idee, i buoni propositi, i pensieri.
Dopo aver velocemente superato i controlli all’ingresso del Tribunale, l’avvocato Castaldi si diresse nell’aula dove si sarebbe svolto l’interrogatorio. Era già presente l’addetto alla stenotipia, un signore sulla cinquantina, capelli bianchi brizzolati, occhi celesti nascosti da un paio di occhiali da vista tondi dalla montatura spessa. Si salutarono cordialmente e con uno sguardo d’intesa, lo stesso che accumuna due persone che sanno di essere coinvolte in una storia da trattare con le dovute precauzioni.
Il giudice Rossi che si sarebbe occupato dell’interrogatorio era una vecchia conoscenza dell’avvocato che lo ricordava soprattutto per il suo essere estremamente puntiglioso, ligio alla legge – anche troppo – e poco flessibile. L’interrogatorio con lui sarebbe stato ancor più complesso, ma Castaldi aveva sempre preferito giudici puntigliosi perché, come si diceva dalle sue parti, è dai fessi che ti devi guardare.
Alle nove precise in aula c’erano ormai tutti i soggetti necessari per iniziare: oltre all’addetto alla stenotipia ed all’avvocato, erano arrivati il cancelliere, il pubblico ministero, il giudice e, infine, la polizia penitenziaria aveva accompagnato l’indagato prelevandolo direttamente dal carcere nel quale era stato condotto qualche giorno prima.
L’indagato era accomodato su di una sedia al centro dell’aula ed aveva di fronte a se un microfono che sembrava puntato contro di lui come un dito accusatore. O forse questo è quello che percepiva l’Avvocato.
L’interrogatorio di garanzia era appena iniziato dalla richiesta delle generalità dell’indagato, momento che, sebbene per molti possa sembrare pressoché irrilevante, rappresenta una fase fondamentale di ogni interrogatorio, perché l’indagato ha l’obbligo di dire la verità e qualsiasi dimenticanza od errore possono costituire reato. Anche l’omettere eventuali soprannomi o abbreviazioni del proprio nome comunemente utilizzati in città, rappresentano un rischio al quale esporsi.
Il Giudice lesse il capo di imputazione: atti persecutori ai sensi dell’art. 612 bis del codice penale.
In poche parole stalking: l’indagato era accusato di stalking nei confronti di una donna influente in città, nipote di un grande imprenditore e a sua volta figlia di un politico di rilievo nell’intera regione. Accettare la difesa di casi del genere era sempre molto complesso per gli avvocati in città. Per tutti, tranne che per Castaldi, il quale era convinto che chiunque, a prescindere dalla sua colpevolezza o meno, merita sempre la difesa migliore che possa essergli garantita. Il mestiere era tutto lì: garantirgli il sacro santo diritto alla difesa.
Dopo aver letto il capo di imputazione, il giudice aveva richiesto all’indagato se volesse avvalersi della facoltà di non rispondere. La risposta era stata secca: no.
Il fulcro dell’interrogatorio era ormai iniziato: il giudice stava rivolgendo all’indagato tutte le domande utili in relazione al capo di imputazione per poter ricostruire il fatto che aveva portato alla sua custodia cautelare in carcere.
L’indagato appariva sereno mentre raccontava al giudice l’accaduto: la persona offesa, la donna influente, si era sentita perseguitata dall’indagato per averlo incontrato più volte in alcuni posti della città che, a detta dell’indagato, erano molto frequentati dai loro coetanei. La persona offesa, dopo questi incontri sporadici, aveva anche avuto alcuni attacchi di panico, chiamando più volte la polizia e recandosi in pronto soccorso. Il tutto nasceva da alcune conversazioni precedentemente intercorse tra i due tramite Instagram, dalle quali emergeva che era stata la donna a mostrare interesse verso l’indagato, dicendogli di averlo notato nei luoghi nel quale, dopo queste conversazioni, i due avevano continuato ad incrociarsi.
Era una storia complessa che, secondo l’avvocato, nascondeva una trama molto più articolata nella quale erano coinvolte altre persone. L’indagato, infatti, era figlio di una famiglia conosciuta in tutta la città, ma per meriti diametralmente opposti rispetto alla famiglia della persona offesa. Si trattava di grandi strozzini che erano stati incastrati dalla giustizia più volte. Uno stile di vita, però, che l’indagato non aveva mai condiviso né tantomeno abbracciato.
Il giudice aveva appena ultimato le sue domande: era arrivato il turno di Castaldi. L’interrogatorio continuò per un’altra mezz’oretta, interrotta più volte dal giudice che riteneva alcune domande non pertinenti al capo d’imputazione.
“Mi può dire se ha ricevuto minacce in questi ultimi mesi?” era stata la domanda dell’avvocato.
“Avvocato, non capisco dove vuole arrivare. La domanda non mi sembra pertinente, però vediamo se c’è un filo logico” immediata era stata la risposta del giudice.
“Si Avvocato. Qualche mese fa sono stato minacciato su messenger da un profilo che mi sembra falso. La minaccia riguardava la signora ed era abbastanza chiara: se non avessi smesso di sentirla, mi avrebbero tagliato la testa. All’inizio pensavo si trattasse di qualche vecchia fiamma della signora che dopo aver trovato le nostre conversazioni ed in preda alla gelosia, aveva deciso di minacciarmi”. Colpito e affondato: era proprio qui che voleva arrivare Castaldi che, con la coda dell’occhio, aveva percepito la fronte del giudice corrugarsi. C’era qualcosa che non filava e lo avrebbe scoperto presto: bisognava solo continuare a battere quella strada.
Una volta terminato l’interrogatorio e richiesta la modifica dell’ordinanza di custodia cautelare con gli arresti domiciliari, Castaldi si diresse verso la sua Fiat parcheggiata alle spalle del Tribunale. Il giudice avrebbe avuto cinque giorni per decidere e lui avrebbe continuato a non dormire fino al provvedimento.
All’uscita dal Tribunale, una folla di giornalisti lo assalì, curiosi di poter sapere qualcosa in più sul caso. Ma Castaldi aveva tirato dritto imperterrito senza mai voltarsi neanche ad ascoltare le loro illazioni ed accuse infondate. Ancora cinque giorni e avrebbe capito se la fronte corrugata del giudice all’ultima risposta dell’indagato, significava che erano in due a pensare di trovarsi di fronte ad un caso ancor più complesso che si celava, solo apparentemente, dietro ad un semplice capo di imputazione per stalking.