BBC: https://www.bbc.com/news/world-middle-east-63242100

Libertà di velo

Perché in Iran si protesta per un governo senza veli

Donna, Vita, Libertà. Tre parole, una rivoluzione. Anzi due, perché la storia si ripete. Parliamo ovviamente del movimento di rivoluzione delle donne iraniane dopo la morte di Mahsa Amini lo scorso 16 settembre. Secondo l’ultimo rapporto medico di Teheran, Mahsa Amini sarebbe morta di malattia e non di percosse, nonostante la famiglia avesse dichiarato che la ragazza era sana e nonostante le evidenti prove fotografiche (orecchie sanguinanti e ematomi intorno agli occhi) di percosse. La vicenda è iniziata il 13 settembre quando Mahsa Amini, ventiduenne curda, viene fermata in un parco di Teheran dalla cosiddetta “polizia religiosa” o “polizia morale” perché non indossava il velo correttamente, ossia non coprendo completamente i capelli. La polizia la porta in carcere, probabilmente per un’operazione di rieducazione morale. Dopo poche ore, però, viene portata con un’ambulanza in ospedale e lì finisce in coma finché non muore tre giorni dopo. Da lì, scoppiano proteste femminili, a cui partecipano anche uomini, nella capitale e in altre città dell’Iran contro la “polizia religiosa” e per la libertà di espressione. Ma che cos’è la Gasht-e Ershad, la polizia morale “religiosa” che controlla i valori islamici nella società iraniana la Gasht-e Ershad, la polizia morale “religiosa”? Ed è vero che non coprire i capelli è una trasgressione degli insegnamenti del Corano? No. Nel Corano, viene menzionato sì l’hijab e si raccomanda un abbigliamento pudico e modesto sia per le donne che per gli uomini ma non è mai espressamente detto che le donne debbano coprirsi i capelli. Chi lo ha stabilito allora? Ovviamente, l’uomo, le autorità religiose che leggono il Corano e ne danno interpretazione nella legge islamica, la Shari’a. E qui, c’è il ruolo della Gasht-e Ershad, la polizia morale “religiosa” che controlla i valori islamici nella società iraniana. 

Quest’organo di tutela dell’ordine e della morale sociale viene istituito nel ventunesimo secolo in diversi stati islamici, innanzitutto in Arabia Saudita nel 1921, e sostituisce la figura del Mutassim che, a partire dal Medioevo, era stato il responsabile dell’ordine civile nei bazar, compreso l’abbigliamento delle donne. In Iran, però, la Gasht-e Ershad e l’obbligo per le donne di indossare l’hijab arrivano soltanto nel 1979 con l’istituzione della Repubblica Islamica. È infatti il 1979 l’anno delle prime rivolte femminili contro l’imposizione del velo e a favore della libertà di espressione, rivolte che oggi vediamo purtroppo ripetersi anche se con cause scatenanti diverse. In realtà dal 1926 al 1941, l’Iran ha vissuto in realtà un periodo di occidentalizzazione, volto a promuovere l’industrializzazione del Paese e tale da imporre ai cittadini di indossare abiti ‘occidentali’ e non tradizionali. Dal 1941 al 1979, gli iraniani vivono l’unico periodo in cui sono libero di vestirsi come preferiscono all’occidentale o in maniera tradizionale. Nel 1979 viene istituita la Repubblica Islamica, che inizia ad imporre il velo negli uffici governativi. L’obbligo di indossare il velo in pubblico è diventato legge islamica nel 1984, quando l’Assemblea consultiva islamica approvò la pena di 72 frustrate per chi non avesse osservato questa legge. Negli anni si sono aggiunte altre pene come multe, detenzione in prigione e tentativi di rieducazione (com’è stato inizialmente per Mahsa Amini). In tal caso, le donne sono rilasciate soltanto se un loro parente maschio fa da garante e firma per la loro scarcerazione. L’obbligo del velo e le conseguenti pene e sanzioni sono tutt’oggi valide e sono non solo il chiaro motivo delle rivolte correnti (che hanno visto l’uccisione di molte altre giovani donne) ma anche il braccio di ferro tra governo e società civile. Infatti, i diritti delle donne e il loro modo di vestire appaiono come il primo strumento, per abuso e per efficacia, del governo per tenere sotto controllo la popolazione. Quella popolazione che di fatto protesta, al di là del genere, etnia o religione, non contro la religione islamica bensì contro il fondamentalismo islamico quale mezzo di controllo e di propaganda politica. Bisogna tener ben presente che governo e popolazione iraniana sono ben distinti: basti pensare che la popolazione ha un’età media di 32 anni e che buona parte di essa non voto al referendum del 1979 che proclamò la Repubblica Islamica, ma questa Repubblica la subisce ogni giorno e contro di essa da decenni protesta. 

E noi speriamo fortemente che le iraniane e gli iraniani riescano finalmente a vedere riconosciuti diritti fondamentali come la libertà di espressione e la laicizzazione del loro Paese, l’Iran, ricco di storia, tradizioni e cultura.


Articolo pubblicato su Il Quotidiano del Sud – L’Altravoce dei ventenni