Foto di Ivana Cajina su Unsplash
Foto di Ivana Cajina su Unsplash

Le stelle d’estate: dieci anni senza Margherita Hack

L’estate è per ognuno di noi un ricordo: non per forza piacevole, esistono anche gli animali invernali e ahimè, bisogna farsene una ragione. Ricordi, comunque, l’estate ne porta: profumi, sensazioni, luci.

Per chi come me ha passato – e passa – buona parte dei mesi estivi in territori montani, l’estate significa albe tiepide, acquazzoni improvvisi, verde accecante e notti limpide.

Estate è, soprattutto, la stagione dei cieli stellati: tra i ricordi più amati, ci sono quelli delle notti estive, circondata dalle montagne, col naso all’insù. Quegli attimi di tempo sospeso in cui non riesci ad abbassare lo sguardo, e ti chiedi se siano passate ore o minuti, distesa tra i ciuffi taglienti di erba umida.

Non so per quale motivo le notti stellate mi attraggano così tanto: credo sia una questione di onnipotenza, di consapevolezza di trovarsi di fronte a qualcosa di perfetto e che, per quanto tu ti possa impegnare, non potrà essere cambiato. E’ un po’ la stessa sensazione che si prova di fronte alle coincidenze della vita, o – per parlare di cose spicce – ai mandarini. Alla perfezione simmetrica, dell’uno e dell’altro.

E poi c’è l’insostenibile fatto di trovarsi di fronte a qualcosa di incredibilmente storico: qualcosa che trasuda conoscenze e vecchie tradizioni (e, perché no, soluzioni).  

L’osservazione del cielo ha sempre avuto un notevole fascino sull’uomo: dagli Egizi agli Aztechi fino ai giorni nostri le stelle, il sole, la luna ed i fenomeni loro connessi (eclissi, comete, stelle cadenti),  hanno attirato l’attenzione dell’essere umano. Se nel ventunesimo secolo gli astrofisici hanno studiato lo spettro luminoso delle stelle per aggiungere qualche tassello in più alla conoscenza scientifica, c’è ancora  chi crede all’influenza delle costellazioni zodiacali sul carattere dell’uomo e su quella che sarà l’evoluzione della propria vita.

La più bella stellata della mia vita l’ho vista nel deserto del Wadi Rum, in Giordania. Distese a perdita d’occhio di minuscoli punti luminosissimi, circondata solo da oscurità sconfinata. Le più familiari, però, sono sempre state quelle in montagna, a volte offerte senza nulla in cambio, altre volte ricercate con infinita pazienza. Ho guardato le stelle ad occhio nudo, non capendoci molto, e col telescopio di chi, come il mio fidanzato, ha fatto dell’astronomia, della fisica e di tutte quelle cose che noi umanisti fatichiamo a capire quasi una ragione di vita, capendoci ancora meno. La maggior parte di noi ha perso la possibilità di vivere l’esperienza di una stellata in una notte veramente buia e limpida; alcuni di noi – i più giovani – forse non l’hanno addirittura mai avuta. L’inquinamento luminoso, non solo nelle città, ma anche nelle campagne dei paesi industrializzati, rende impossibile la visione delle stelle più deboli (quelle più numerose!), della Galassia e la percezione, attraverso la differenza di luminosità delle stelle, della “profondità” del cielo. La sfida mentale di immaginare distanze che il nostro senso comune non riesce a comprendere, di pesare il vuoto cosmico con la distribuzione di materia e di luce, la difficoltà di confrontarsi con l’ignoto.

L’astronomia continua a esercitare oggi lo stesso fascino irresistibile e primordiale che spinse i primi uomini ad ammirare il cielo stellato e a confrontarsi con le misteriose profondità del cosmo. Se da un lato il fascino dell’astronomia è rimasto inalterato lungo la millenaria storia dell’umanità, la scienza astronomica si è evoluta enormemente dai tempi dei primi filosofi-astronomi ionici fino all’attuale epoca dei grandi telescopi terrestri e spaziali.

L’astrofisica, invece, rappresenta la disciplina che più ci avvicina alla domanda finale, l’ultima di tante, anzi la prima di tutte: Come è nato l’universo? Come finirà? Come funziona? E perché? Per usare un’espressione un po’ abusata, la fisica è la madre di tutte le scienze. Il primo periodo di vita dell’universo è stato unicamente determinato dalle leggi fisiche; chimica, genetica, botanica, zoologia, psicologia, che hanno dovuto attendere lo sviluppo di una vita più complessa.

Poche settimane fa, il 29 giugno 2023, è ricorso il decimo anniversario dalla morte di Margherita Hack, colei che è stata definita “la signora delle stelle”. Prima donna italiana a dirigere un osservatorio astronomico (quello di Trieste, dal 1964 al 1987), durante la Seconda Guerra Mondiale aveva mosso i primi passi da astrofisica all’Osservatorio di Arcetri. Resta indelebile il segno che ha lasciato come astronoma e divulgatrice. Spettroscopista stellare, ha curato lavori importanti in particolare sulle stelle binarie – cioè due stelle che appaiono vicine, ma che possiedono in verità distanze molto differenti dal Sole-, ambito per cui già negli anni Cinquanta del Novecento ha avuto intuizioni che sono state in seguito confermate (tra le altre, anche dal telescopio spaziale International Ultraviolet Explorer (IUE), lanciato il 26 gennaio 1978 da Nasa, Agenzia Spaziale Europea (ESA) e Gran Bretagna e attivo per sedici anni). Margherita Hack è nota, specie negli ultimi decenni della sua vita, anche per la sua infaticabile opera di divulgatrice, complice un’impareggiabile parlantina e la capacità di rendere chiari concetti assai complessi senza tuttavia mai banalizzarli. Sempre nella fase ultima della sua vita, Margherita Hack ha raccontato sempre con grande gusto e ironia le battaglie affrontate nel corso della vita per imporsi, lei donna, nel mondo accademico, soprattutto nei primi anni della carriera.

E’ così bello fissare il cielo e accorgersi di come non sia altro che un vero e proprio immenso laboratorio di fisica che si srotola sulle nostre teste”.

Tutta la materia di cui siamo fatti noi l’hanno costruita le stelle [… ] per cui noi siamo veramente figli delle stelle”.

Con la speranza che, come ci insegna Margherita Hack, in queste sere limpide d’estate, ognuno di noi possa, naso all’insù, innamorarsi del mistero che ci circonda e della sua bellezza inafferrabile.


Articolo pubblicato su Il Quotidiano del Sud – L’Altravoce dei ventenni