Con le incertezze e l’inquietudine di questo periodo, che ha visto una crescita di interesse per tutto ciò che riguarda i corpi celesti, le novità comunicate dalla Nasa – mai è così attiva nello studio del nostro universo quanto in questi ultimi mesi – hanno rappresentato una piacevole parentesi intrattenente e priva di catastrofismi.
Per questo, le attività del telescopio spaziale Hubble hanno ispirato una produzione artistica piuttosto particolare. La fotografia più famosa del telescopio ci ha permesso di ammirare i famosi “Pilastri della Creazione”.
Ad oggi sono l’insieme di gas interstellare e polveri della Nebulosa Aquila che meglio ci ha permesso di studiare le trasformazioni delle stelle all’interno di – appunto – una nebulosa. I Pilastri svettano meravigliosi e imponenti nella costellazione del Serpente e, dal 1995, anno in cui è stata scattata la foto da Hubble, affascinano e ci costringono a ridimensionare la nostra presenza nell’universo.
Un universo che, complici i film e i documentari ambientati nello spazio, ci spaventa quanto i fondali dei nostri oceani, perché proprio come loro ci costringe a confrontarci con le peggiori entità esistenti: il silenzio e la solitudine.
Le onde acustiche, infatti, non possono diffondersi nel vuoto cosmico e ciò che già è immensamente vasto rischia di schiacciarci, la nostra mente non può concepire una simile pressione, un simile vuoto.
Eppure, astronomia e musica sono discipline che nei tempi antichi erano considerate quasi sorelle, soprattutto da Platone che le accomunava per le percezioni sensoriali che stimolavano a livello visivo la prima e a livello uditivo la seconda. Addirittura, la cosmologia moderna ipotizza che il Big Bang sia stato prodotto da vibrazioni quantiche nel vuoto e lo stesso Galileo Galilei ha approcciato lo studio della fisica ispirato dagli insegnamenti dei genitori musicisti.
La nostra civiltà nasce come prodotto di scienze impalpabili ma costanti. La musica in questo senso nasce prima dell’uomo, per cui ogni suono ci rassicura e ci fa sentire vicini anche nelle più grandi distanze.
Non sorprende, quindi, il grande entusiasmo che ha accompagnato la notizia della “sonificazione” dei Pilastri della Creazione. Grazie alla tecnologia, infatti, è stato possibile convertire in musica le vibrazioni dell’universo che si propagano come onde elettromagnetiche.
Il progetto Systems Sound, che è parte del programma “Universe of Learning” della Nasa, ha sfruttato i dati del telescopio Hubble, del telescopio spaziale Spitzer dell’Osservatorio Chandra per convertire le immagini in un minuto di musica armoniosa lontana centinaia di anni luce. A creare l’armonia è ciascun telescopio, che individua il suono adatto in base alla posizione e alla luminosità dell’astro, come più musicisti che sovrappongono diversi strumenti e spartiti per creare una canzone che va oltre le distanze e il vuoto cosmico.
La canzone è possibile ascoltarla sul sito e sui social media della Nasa. Non è una composizione di Verdi o Mozart, ma un’armonia di suoni nuovi, a tratti fastidiosi, che pungono l’anima scavando nelle nostre paure e percezioni. Sono vibrazioni che si sentono fino alla punta dei piedi e lasciano un po’ disorientati ma colmi di meraviglia, il corpo diventa tutt’uno con l’universo e all’improvviso il silenzio e la solitudine sono un lontano ricordo.
Vagare nello spazio e nel tempo, assistere al miracolo della creazione e della trasformazione di sorgenti celesti diventa il più grande spettacolo che i nostri sensi ci permettano di osservare.
La musica colma distanze insondabili e ciò che è impalpabile diventa parte di noi, imponendoci di ridimensionare il nostro quotidiano fatto di incertezze e problemi apparentemente insormontabili.
Articolo pubblicato sul Quotidiano del Sud – l’Altravoce dell’Italia di lunedì 28/10/2020