In un’intervista rilasciata recentemente a Repubblica, l’ex Premier Enrico Letta, oggi Direttore dell’Istituto di studi politici di Parigi, ha rilanciato nel nostro paese un tema fortemente dibattuto, rappresentato dalla possibilità di estendere il diritto di voto ai cittadini italiani che abbiano compiuto i 16 anni d’età.
La proposta avanzata di per sé non rappresenta un unicum nel panorama nei sistemi politici europei e globali. In Austria ad esempio è possibile già dal 2007 recarsi alle urne a 16 anni, così come in Germania dal 2011 i sedicenni di alcuni lander possono votare alle elezioni regionali e locali. Anche in Bosnia, Croazia, Serbia e Slovenia è possibile votare a 16 anni, ma solo se si ha un posto di lavoro, mentre in Ungheria lo stesso diritto è condizionato all’essere sposati.
Fuori dall’Europa, il diritto di voto esteso ai sedicenni è realtà in Argentina, a Cuba, ed è invece facoltativo in Brasile e in Ecuador, paesi in cui è considerato obbligatorio votare dai 18 ai 70 anni.
Il dato politico su cui riporre la nostra attenzione tuttavia è un altro: la proposta se accolta genererebbe un allargamento della platea elettorale di circa 1 milione e 100 mila votanti (dati ISTAT), che avrebbero così la possibilità di esprimere la propria opinione ai seggi e, potenzialmente, stravolgere gli equilibri di forza all’interno dello scacchiere politico.
Già, perché se da un lato la spinta verso questa riforma trae spunto ideologico dalle lotte del movimento Fridays for Future, che ha invaso le nostre piazze di giovani desiderosi di incidere sul destino climatico del nostro pianeta, è altrettanto vero che la proposta non può non celare un freddo calcolo elettorale da parte delle forze politiche promotrici, allettate da un incremento del numero complessivo degli elettori di circa il 2%.
Ma quale forza politica trarrebbe maggiori benefici in termini di consenso? La sensazione è che si navighi a vista. Alle parole di Enrico Letta è seguito il tweet di Nicola Zingaretti, che si dice “da sempre favorevole al voto ai sedicenni”. Luigi Di Maio sostiene sia “una proposta che portiamo avanti da sempre e che sosteniamo con forza” (Beppe Grillo in effetti già nel 2016 aveva lanciato la campagna #Votoa16anni). Persino la Lega, dopo l’iniziale rigetto dettato dall’ovvio sospetto verso le intenzioni degli avversari politici, si è ricordata di aver depositato nel 2015 una proposta di legge costituzionale per allargare l’elettorato attivo ai sedicenni, e con il Governatore del Friuli Massimiliano Fedriga ha rivendicato la tardiva presa di coscienza degli altri partiti nei confronti della questione.
Se dunque nessuno osteggia apertamente la riforma questo può voler dire solamente una cosa: i 16/17enni stanno per diventare il terreno di conquista elettorale delle forze politiche, che pur di accaparrarsi la fetta più grande possibile di quel bacino di voti non avranno scrupoli ad utilizzarli come idolatri di una purezza politico-valoriale ormai per loro svanita da tempo, ed impossibile da recuperare agli occhi degli elettori. Ricorda qualcosa? Ci arriveremo.
Arduo sostenere con fermezza una posizione di favore o contrarietà alla proposta, perché se è vero che difficilmente un sedicenne ha a disposizione i mezzi culturali e cognitivi necessari ad esprimere un voto adeguatamente informato, è altrettanto vero che molto del futuro di questo paese dipenderà da nuove generazioni che oggi non godono di una degna rappresentazione nell’arco parlamentare. Dare loro il diritto di voto permetterebbe di garantire almeno in parte che la loro voce venga ascoltata, dando al tempo stesso il precoce via ad un processo di responsabilizzazione dell’azione politica che tanto sembra mancare alle generazioni più vecchie.
Altrettanto arduo tuttavia potrebbe essere assistere, come nel caso di Greta Thumberg, alla strumentalizzazione organizzata di sogni e speranze dei giovani, per quanto nobili possano essere i fini, con l’intento di utilizzare bagliore che luccica nei loro occhi per compensare l’incapacità di trasmettere messaggi in grado di emergere dalronzio incessante dell’ipercomunicazione nell’era dei social.