Il dissidio interiore di Sylvia Plath

Poetessa, autrice di racconti, scrittrice di un romanzo, icona letteraria del Ventesimo secolo, madre e anche moglie: Sylvia Plath. Oggi sarebbe stato il suo compleanno e vorrei ricordare, seppur con poche righe, una voce così autentica, intima e potente della letteratura del ‘900.

Sylvia Plath nacque il 27 ottobre 1932 a Jamaica Plain, un sobborgo di Boston. Di spiccata sensibilità e di precocissimo talento iniziò a scrivere poesie sin da bambina, tanto che la prima venne pubblicata su un giornale locale quando lei aveva appena 9 anni. Grazie alla sua incessante attività di scrittrice venne ammessa nel 1950 ad una scuola femminile nel Northampton, lo Smith College. Nel corso degli anni continuò a produrre versi e racconti ricevendo anche diverse gratificazioni attraverso la loro pubblicazione in rivista; purtroppo però durante questi stessi anni Sylvia iniziò a soffrire di crisi depressive, depressione che la tormenterà per il resto della sua vita. Sempre a questi anni risalì il suo primo tentativo di suicidio e il conseguente internamento in una clinica psichiatrica, in cui le venne somministrata psicoterapia e l’elettroshock. Dopo essere stata dimessa dalla clinica ritornò alla sua vita “normale” e terminò gli studi, ma il senso di insoddisfazione, di strenua e continua ricerca della perfezione, di ossessivo rifugio nelle pagine bianche non l’abbandonarono mai: in loro trovava conforto, in loro lei esisteva. Nel 1956 sposò il poeta Ted Heughes, che aveva conosciuto qualche anno prima. Sylvia desiderava avere una propria voce, affermarsi, diventare una scrittrice ma dall’altra era anche decisa a diventare una moglie e una madre. La sua grande sensibilità la portò ad oscillare e a dilaniarsi tra questi due estremi, che solo in un primo momento riuscì a conciliare attraverso il matrimonio. In questo giocò un ruolo fondamentale la sua educazione ai valori della società americana. Il matrimonio quindi sembrava essere la strada giusta da intraprendere e i primi anni con Ted furono davvero felici: Sylvia sentiva di esistere e si sentiva amata. Ma un anima così tormentata sin da piccola non poteva trovare pace e conforto a lungo. Dopo la nascita dei due figli, Sylvia e Ted si trasferirono in Inghilterra e in questi anni si acuì il senso di insoddisfazione e dolore della poetessa. Era sempre più ingestibile il conflitto interiore che la tormentava: essere moglie e madre e riuscire a diventare una scrittrice di successo. Questo conflitto si unì al suo costante desiderio di perfezione in ogni ambito della vita, perciò le crisi e la depressione ritornarono a tormentarla con sempre più insistenza. Divorziò da Ted dopo diversi tradimenti da parte di lui, il matrimonio naufragò e da lei venne vissuto come una sconfitta ancora più grande. Il peso di tutte le cose era troppo pesante da portare e Sylvia non si sentì più in grado di sopportarlo. Si tolse la vita l’11 febbraio 1963, dopo aver messo a letto i bambini.

Il mio incontro con la scrittura di Sylvia Plath avvenne relativamente tardi, e forse è stato meglio così, ma fu un colpo di fulmine, o meglio un fulmine a ciel sereno che illuminò e squassò la mia vita di lettrice. Fu meglio così perché se l’avessi scoperta prima non avrei avuto la maturità necessaria per amarla così, ed interiorizzarla. Iniziai prima dalla lettura del romanzo e dei racconti, poi dei diari e infine, solo dopo, mi approcciai alla lettura delle poesie. Tutta la sua produzione è fortemente e indissolubilmente legata alla sua vita, tutti i suoi scritti sono autobiografici, quale di più, quale meno. A cominciare dal romanzo. La Campana di Vetro racconta la sua vita, filtrata da nomi inventati per celare quelli veri, di quegli anni dello Smith College, del suo tentativo di suicidio, dell’internamento, della sofferenza, della sensazione di non essere e non sentirsi mai abbastanza, mai all’altezza. Per il lettore è come trovarsi sotto la campana di vetro assieme a lei «a respirare la mia aria mefitica.» Il linguaggio del romanzo è crudo, schietto, reale. Tanto reale – a volte così tanto da fare male – e limpido è il linguaggio delle sue liriche. Così intime e così profonde, così personali da riuscire a toccare quel punto oscuro nell’io più profondo di chiunque le legga. Sylvia Plath è stata esponente della poesia confessionale, di quel genere di poesia che porta sulla pagina la realtà delle esperienze quotidiane e personali di chi le ha vissute. La sua prima raccolta di poesie pubblicata in vita fu The Colossus (1960), traduzione del suo aggrovigliato e conflittuale mondo interiore, della sua quotidianità, del modo disperato in cui la viveva, i rapporti con se stessa e con gli altri. Ariel, Crossing Water, Winter Trees, e le raccolte di racconti (così come i Diari) videro la luce della pubblicazione solo anni dopo la sua morte. La scrittrice è diventata inoltre, solo dopo morta, un simbolo del movimento femminista perché con l’esempio della sua vita ha rappresentato il dissidio tipico della donna che poteva essere moglie o avere successo, quindi diventare poetessa. Non era contemplato essere entrambe le cose. Nel corso della sua vita Sylvia ha provato in ogni modo ad essere entrambe facendo la madre di giorno e scrivendo di notte, anche e soprattutto nel periodo peggiore della sua vita, in cui le crisi depressive erano più forti. Probabilmente Sylvia non avrebbe mai immaginato che la sua vita, che ai suoi occhi appariva così priva di senso, avrebbe acquistato così tanto significato per molte altre donne.

Tutta la sua produzione è percorsa da un disperato bisogno di vita, di adeguamento ad essa, di necessità di combaciare e rientrare negli schemi che essa aveva prestabilito. E insoddisfazione, nel constatare che raramente, se non quasi mai, riusciva a rientrarvi:


Io sono verticale
ma preferirei essere orizzontale.
Non sono un albero con radici nel suolo
succhiante minerali e amore materno
così da poter brillare di foglie a ogni marzo,
né sono la beltà di un’aiuola
ultradipinta che susciti gridi di meraviglia,
senza sapere che presto dovrò perdere i miei petali.
Confronto a me, un albero è immortale
e la cima d’un fiore, non alta, ma più clamorosa:
dell’uno la lunga vita, dell’altra mi manca l’audacia.

Stasera all’infinitesimo lume delle stelle,
alberi e fiori hanno sparso i loro freddi profumi.

Ci passo in mezzo, ma nessuno di loro ne fa caso.
A volte io penso che mentre dormo
forse assomiglio a loro nel modo più perfetto
con i miei pensieri andati in nebbia.
Stare sdraiata è per me più naturale.
Allora il cielo e io siamo in aperto colloquio,
e sarò utile il giorno che resterò sdraiata per sempre:
finalmente gli alberi mi toccheranno,
i fiori avranno tempo per me.

Per usare le sue stesse parole: lei era verticale, non orizzontale, non era ancorata alla terra, non aveva radici, è sempre stata in movimento tra un pensiero e l’altro, tra un tormento e l’altro. In costante disaccordo con la vita, con ciò che Sylvia voleva disperatamente essere e ciò che in realtà era. Se non fosse stata verticale probabilmente però non ci avrebbe regalato le su parole.

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