Avete mai notato che in tutti i più grandi racconti di fantasia, mentre gli eroi e i cattivi si scontrano, le persone comuni sono sempre quelle che, per tutto il tempo, sembrano non fare altro che aspettare?
Aspettare, sperando che alla fine, il supereroe abbia la meglio.
Sono cresciuta guardando i cartoni animati e le serie in tv, i reality e mtv; incollata allo schermo dalle sette del mattino, prima di andare a scuola, fino a sera, quando si parlava a tavola della nuova pubblicità di questo o di quell’altro.
Non ho mai dovuto fare molto, se non aspettare che le cose si mettessero bene per i miei supereroi, perché bene e male infondo per me erano solo due concetti. Niente che potessi toccare con mano.
Non ricordo di aver mai avuto bisogno di “cambiare” le cose. Oggi credo sia chiaro il perché: quando ero al liceo, la maggior parte dei miei coetanei ed io abbiamo vissuto quasi indisturbati nel riecheggio del benestare dei nostri genitori, e dei nostri nonni. Abbiamo avuto tutto e non abbiamo dovuto nemmeno chiedere: le case, le auto, l’istruzione, il fitto pagato, le tasse universitarie pagate, la vacanza al mare e in montagna. Non ricordo di conversazioni inerenti alla politica o all’economia con i miei coetanei, non ricordo di aver mai parlato tanto di cosa avremmo fatto in futuro, né ricordo di aver mai avuto paura che qualcosa andasse storto, o che i miei genitori perdessero il lavoro, o che potessi trovarmi nella condizione di non avere scelta.
Avevamo solo sogni, e forse vivevamo dentro ad uno di questi. Ovattati da genitori che avrebbero fatto di tutto per crescerci come loro erano stati cresciuti, come qualsiasi genitore spera di crescere un figlio: dandogli tutto, e nessuna preoccupazione, se non quella di scegliere il proprio futuro.
Non è andata come previsto.
Secondo l’ultimo rapporto del Censis, infatti, nel 2020, il 50% dei giovani versava in condizioni economiche peggiori di quelle vissute dai propri genitori alla loro età. Sempre secondo questo rapporto e i più recenti dati Istat, la disoccupazione giovanile in Italia sarebbe salita al 29,7 %, mentre il 20,7% della popolazione tra i 15 e i 24 anni è composto dai c.d. Neet, giovani inattivi che non studiano, né sono in cerca di un lavoro.
Scenario: la crisi economica più grave dal secondo dopoguerra, la pandemia, l’instabilità del governo, la disoccupazione a livelli allarmanti; va da sé che chi vive tutto questo, oggi, debba avere la pelle più dura di chi ha vissuto nel secolo scorso.
Pensando a questo, per giorni mi sono chiesta:
Chi saranno gli eroi di questa generazione?
Se i genitori di oggi sono giustamente esasperati dalla precarietà del lavoro, dalla DAD, dalle tasse, dal mutuo che non si riesce più a pagare, dalle crisi coniugali in aumento, dalle inevitabili conseguenze che mentalmente il lockdown porta con sé, chi guiderà i ragazzi? Mentre la politica confonde, l’economia trema e i giorni della settimana neanche si distinguono più, chi salverà questi giovani dall’incombere di problemi la cui risoluzione diventa sempre più imperativa e vitale perché vi possa essere un qualche futuro? Chi li tutelerà dall’opportunismo dei poteri forti che li ha sempre esclusi da un dialogo che avrebbe dovuto invece vederli protagonisti?
Poi leggo qualcosa che mi spacca in due il viso. Rido e un po’ piango di gioia.
Forse ho la mia risposta.
I giovani salveranno i giovani.
I giovani a cui non abbiamo prestato attenzione.
I giovani che conoscono la resilienza.
I figli di un paese che si è dimenticato come si insegna, come si guida, come si investe nel futuro, che nutrono letteralmente la speranza di altri giovani, che l’hanno da tempo persa.
I figli della scuola che doveva essere.
Figli dell’Italia che nei primi anni 2000 prometteva un importante investimento in istruzione e formazione, attraverso le famose tre “I” (Inglese, Imprenditoria, e Informatica) con lo scopo di avvicinare il mondo moderno ai giovani, per non doverli un giorno costringere a rincorrerlo fuori dal proprio paese.
Non è andata come previsto.
Oggi la scuola è pressappoco quella di dieci anni fa, una vecchia auto coi sedili nuovi, nuovi pneumatici, nuovi specchietti, ma con lo stesso motore e con lo stesso pilota, che pretende di continuare a guidare in virtù di una maggiore esperienza, nonostante questa si sia rivelata ad oggi poco funzionale alla lettura dei nuovi percorsi da intraprendere e alla traduzione di questi ultimi in obiettivi da raggiungere.
Spenta la tv dietro la quale per tanto tempo non abbiamo fatto altro che lamentarci, puntando il dito contro la cattiva politica, i giovani sono scesi in piazza, per prendersi la responsabilità del proprio futuro e creare un dialogo con la politica.
Sapevano bene che aspettando, nessun eroe li avrebbe salvati. E così come Batman proiettava il suo simbolo sulle facciate dei palazzi di Gotham, i giovani fondatori di Visionary Days, e Officine Italia, hanno proiettato lo slogan della propria campagna sulle mura di Palazzo Chigi:
“CHI NON INVESTE NEI SUOI GIOVANI, NON HA FUTURO”
#UNONONBASTA
Nata da un’iniziativa di Visionary Days, e con l’importante sostegno di Officine Italia, la campagna #unononbasta porta questo nome perché solo l’1,1% dei 196miliardi del Recovery Fund, sarebbe stato destinato, secondo le prime versioni del PNRR (Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza) ai giovani e alle Politiche Attive per il lavoro.
Il presidente dell’associazione Visionary Days, Carmelo Traina, ha affermato: “Chiediamo di aumentare i fondi, e di poter ottenere chiarezza sulla linea del governo rispetto al nostro futuro” – continua –“nessuna delle proposte, è stata pensata per questa fascia, nonostante sia una delle più deboli in questo contesto di crisi”.
Grazie alla straordinaria risonanza ottenuta tramite le iniziative poste in essere in poco più di un mese, questi giovani hanno raccolto quasi 100.000 firme attraverso una petizione on line.
Il loro Position Paper di 18 pagine è disponibile sul sito della campagna: unononbasta.it ed è stato discusso due giorni fa in tutti i suoi punti, in Commissione Bilancio: il piano prevede lo stanziamento di circa 20miliardi per facilitare l’ingresso dei giovani nel mondo del lavoro, nuovi piani di intervento sul fronte formazione e orientamento, e un progetto di reinserimento dei Neet nella rete sociale.
Nel corso di queste settimane questi ragazzi hanno inoltre utilizzato i propri canali social (che vi invito a seguire) per aprire un confronto sui temi oggetto della campagna con alcuni esponenti del corpo parlamentare, tra cui il Coordinatore Federale di Lega Giovani Luca Toccalini, il Deputato di Più Europa Riccardo Magi, e la Deputata del Pd Giuditta Pini, mettendo le basi per uno scambio tra più generazioni, che non avrei creduto possibile.
Da qui in poi, l’Italia non può e non deve più permettersi di rimanere un paese per vecchi, e gli adulti devono iniziare a capire che il progresso è un fisiologico strumento di sopravvivenza, e non va ostacolato, ma coltivato nelle sue forme più pure.
In virtù di questo, è mia personalissima opinione che il luogo in cui far nascere un dialogo trasversale di questo tipo debba essere proprio la scuola. Non si dovrebbe più accettare che giovani e istituzioni viaggino su corsie separate, né ritardare il momento in cui questo avverrà: gli insegnanti dovrebbero farsi portavoce di una campagna che vede coinvolti così da vicino i ragazzi, informarli, confrontarsi con loro su paure, bisogni, e prospettive, per evitare di vederli spettatori inconsapevoli di un futuro che, ancora una volta, qualcun altro avrà scelto per loro.
L’altro ieri mentre ascoltavo il portavoce della campagna parlare in Commissione, pensavo a Gil Scott Heron, che nel 1971 cantava “Revolution Won’t be Televised”, in una America colpita dalla Guerra Fredda, dalla svalutazione del dollaro e alle porte della crisi petrolifera.
“First you have to look at things and decide what you can do. Something’s wrong and I have to do something about it!
It’s about going to war with the problem and deciding you can affect that problem.
When you want to make things better, then you’re a revolutionary!”
Avevi ragione Gil!
La rivoluzione è figlia di un’idea.
L’idea che prolifera in uno solo crea una necessità, e la necessità, se condivisa, dà il potere ad ognuno di noi di andare in lotta contro il problema.
Per cambiare le cose però #unononbasta.
Di Francesca Miuccio