“Il silenzio. La solitudine. È stato il boato, il rombo, l’eco del silenzio a indicarmi le parole e a farmi riflettere sulla loro forza sconvolgente, generativa”. E’ con queste parole intense che Gaia Ginevra Giorgi – giovane piemontese autrice di diverse raccolte poetiche che ha partecipato a importanti festival internazionali e che abbiamo avuto la fortuna di intervistare in questi giorni – descrive il proprio approccio alla poesia. E, in occasione della giornata internazionale del libro del 23 aprile, è con lo stesso atteggiamento che dovremmo riavvicinarci alla lettura e ad un genere letterario, ultimamente eccessivamente bistrattato, come la poesia. Eppure per secoli il testo poetico è stato considerato il più solenne ed il più sacro tra i generi letterari, oltre ad essere il più intimo e profondo. Proprio questa capacità introspettiva dell’arte poetica è, ancora oggi, una delle sue caratteristiche fondamentali e dei suoi punti di forza, come afferma la poetessa di Alessandria: “La poesia è un fatto che non si esaurisce, uno squarcio nel velo, un dispositivo che permette di guardare di là, di indovinare, di intuire. È un fatto di immaginazione, di spettri, suoni e paesaggi. È un fatto di segreti, di presagi”. Ma, soprattutto in un momento di emergenza come quello odierno, in cui ciascuno di noi non solo è chiamato a riflettere su se stesso, ma anche ad affrontare un futuro pieno di dubbi ed incertezze, i versi possono essere visti come mezzo attraverso cui reinterpretare la realtà e confrontarsi personalmente con essa, proprio come sostiene Gaia Ginevra Giorgi: “la poesia genera anche il reale, lo intesse, lo esercita, lo abilita e lo trasfigura. Per me è sempre una chiamata a raccolta di tutte le forze, fino a fissare il centro. È un’autocoscienza, ma anche una meditazione. È un incendio. Un’operazione di purificazione, di messa a fuoco, di precisione. Affilatissima. È il mio codice”.
E’ inevitabile, di questi tempi, affrontare il tema dell’emergenza del Covid-19, e così anche una poetessa si trova nella difficile posizione di dover ridefinire il ruolo delle arti (inclusa la poesia) di fronte ad un evento di tale portata, con le relative speranze e paure per ciò che sarà: “So sicuramente quale ruolo non devono avere: trasformarsi in semplici beni di consumo, in contenuti sterili di cui fruire in fretta e furia, con frenesia bulimica, senza stabilire alcuna alleanza e legame duraturo. Temo anche un po’ la deriva consolatoria che può prendere la poesia in questo contesto emergenziale. Io mi auguro che questo scenario possa rafforzare i rapporti dei lettori con la poesia, che questo confino forzato, questo stato di fermo, renda più accessibile il linguaggio poetico/artistico, come forma di ricostruzione e risignificazione del reale, e come pratica di resistenza, a un bacino più largo di persone. Ma mentre scrivo questo non posso ignorare una preoccupazione che mi assilla: saranno ancora una volta solo i più privilegiati a poter fruire di questa occasione di riflessione? La poesia, e l’arte tutta, deve agitarci. Questo è forse il ruolo più importante che può giocare in questo tempo: ha il compito di tenerci vivi in un contesto di obbedienza passiva a un potere maldestro, in un contesto in cui la formula di distanziamento sociale è diventata un valore, in cui non ci sono certezze, né tutele. Rimanere vivi, agitarci ancora, è il mio augurio più sincero”.
Nonostante quest’ultimo augurio però, l’autrice non nasconde la propria preoccupazione per le sorti di uno dei settori che sarà inevitabilmente tra i più colpiti da questa crisi: “In quanto lavoratrice della cultura, artista e studentessa, affronto questa situazione con preoccupazione. Non so come mi sosterrò economicamente nei prossimi mesi, come pagherò l’affitto, quando sarà possibile tornare in scena, se troverò qualcuno che potrà sostenere il mio lavoro, la mia ricerca. Sono saltate tutte le residenze artistiche, le performance che avevo calendarizzato per i prossimi mesi. I progetti a lungo termine sono in stato di congelamento. Ho smesso di formulare ipotesi perché è frustante. Non sappiamo se e per quanto saremo tutelati”. Eppure Gaia Ginevra non vuole abbattersi, non ha intenzione di fermarsi: “Io cerco di occuparmi del possibile, di prendermi cura di quello che c’è. Mi sto dedicando molto allo studio, al riposo, alla cura. Cerco di frequentare l’improduttività, l’ozio, senza sensi di colpa. Scrivo e sogno molto, ho gambe forti e una mente lucida, ricettiva. Molte risorse energetiche da cui attingere. Sto raccogliendo le forze. Praticando molta meditazione. Sto riflettendo su affettività, corpi, memoria e fantasmi. Dobbiamo restare vivi. Desiderare ancora”.
Esatto, desiderare. Per la poetessa piemontese infatti è proprio il desiderio il vero motore della poesia, piuttosto che l’ispirazione: “Bisognerebbe definire il concetto di ispirazione. Io preferisco parlare di desiderio (dal latino desiderare, sidus -ĕris ‘stella’, col pref. de-; in origine ‘interrogare le stelle’). Per innescare questo processo di desiderio per me è necessario uno stare specifico, attento, accogliente e calmo. Sono particolarmente interessata alle cose piccole, a sezionare chirurgicamente le parti, a farne dei pezzetti. A scomporre. Oppure esploro spesso le materie sottili, i fantasmi e i ricordi. Per mettere in atto il processo creativo però resta necessario uno spazio di meditazione, di silenzio tutto intorno”. Lo stesso silenzio di cui questo mondo sembra essere prigioniero durante il lockdown, un silenzio che però può stimolarci a interrogare noi stessi e ad interrogare le stelle.