Fish farm: cosa c’è dietro l’allevamento di salmone

Viviamo in un epoca in cui l’uomo è riuscito a garantire per la sua specie prodotti alimentari in enormi quantità, sempre disponibili.
Il beneficio che ne traiamo, spesso e volentieri, grava sulle spalle degli animali di allevamento.
Non solo la produzione di carne, anche quella del pesce negli ultimi decenni ha avuto un enorme picco su scala globale.
Vi parliamo oggi di “Acquacoltura”: la produzione di organismi acquatici.
Come al solito, l’antica popolazione Cinese e gli Egiziani hanno aperto la strada a questa pratica, tramandata poi nei secoli; una delle prime testimonianze risale al 2500 a.C. sotto forma di bassorilievo ornamentale in una tomba, che ritrae un uomo intento a raccogliere un pesce in uno stagno.
L’allenamento ittico, in passato, mirava a mettere a disposizione prodotti freschi da consumare a casa oppure da offrire a prestigiosi ospiti, comune uso tra i Patrizi all’epoca dei Romani.
Solo nell’era moderna si è sviluppato l’uso intensivo delle acquacolture su scala industriale. Ciò è stato possibile grazie all’attento studio dei cicli biologici di questi animali, primo fra tutti la trota.
Oggigiorno sono pressapoco 200 i pesci di cui si può controllare il ciclo biologico e quindi allevare: spigola, salmone, orata, merluzzo, per quanto riguarda l’acquacoltura marina; invece per l’acquacoltura di acqua dolce: trote, tilapie, carpe, storioni e anguille.

Secondo alcune stime, nel 2011 la produzione mondiale di pesci da allevamento ha superato per la prima volta quella di carne e ha raggiunto, nel 2012, i 66 milioni di tonnellate contro i 63 milioni di manzo.
Noi di MangiaGraecia, che siamo dei veri sushi lovers, spinti da una genuina curiosità, abbiamo voluto approfondire l’argomento.
Abbiamo scoperto che l’allevamento dei salmoni è una delle acquacolture più inquinanti a livello ambientale.
L’enorme richiesta del mercato, non solo basato sul sushi, ha spinto a fare grossi investimenti in questo campo.
Non lontano dalle coste sono presenti delle recensioni subacquee larghe diversi metri che arrivano fino al fondale, in esse possono essere presenti fino a 200.000 salmoni. Un 15% non arriva vivo sul banco di vendita perché essi nuotano in acque inquinate da microorganismi che veicolano malattie e i loro escrementi galleggiano fin a depositarsi sul fondo.
Il loro impatto sull’ecosistema è considerevole, essendo infatti una grande fonte di inquinamento.


Una finestra su questa amara realtà ci e offerta nel documentario “Artifishal”, prodotto dall’azienda Americana “Patagonia”.

Un altro rischio a cui si va incontro è l’inquinamento genetico.
E’ possibile che l’usura delle reti o una mareggiata causino la rottura delle vasche contenti i salmoni. Una volta liberi, per istinto naturale, questi tornano verso i fiordi per riprodursi e deporre le uova; viene così instillata una nuova linea genetica in un ecosistema che conservava la sua identità da sempre.
Questi salmoni nuotano poco perché sono confinati nelle reti, vengono nutriti con mangimi a base di cereali per diventare più grossi dei salmoni selvaggi, che al contrario nuotano molto e hanno un’alimentazione naturale.
Inoltre sono presenti nella loro dieta anche antibiotici e additivi chimici, che aumentano il tasso di inquinamento.
La loro carne è grigia, più grassa e povera di vitamina D.
Al contrario, i salmoni selvaggi hanno un ridotto contenuto di grassi, sono ricchi di vitamina D e la carne ha un colore rosso naturale.
Per ovviare al colore della carne, i produttori la colorano artificialmente con integratori a base di carotene, così sul banco del pesce l’acquirente è più indirizzato a comprare la carne al prezzo più basso, sfavorendo così il mercato del salmone selvaggio.


Questo è uno dei tanti esempi di inquinamento di cui noi siamo spettatori passivi.
Basterebbe informarci di più e scegliere con maggiore cura cosa mettiamo sotto i denti, per il nostro bene e per salvaguardare, almeno in minima parte, innocenti animali sfruttati.