L’emergenza derivante dalla pandemia da Covid-19, oltre alle evidenti e drammatiche conseguenze in termini di salute pubblica, ha provocato (e sta provocando) ricadute importanti sulla tenuta economica dello Stato italiano (se vuoi saperne di più, leggi qui!). Non a caso, diversi osservatori hanno sottolineato come gli interventi economici di sostegno e le politiche emergenziali perseguite dal Governo potrebbero consentire una sorta di ‘effetto tabula rasa’, e quindi di ripensare – una volta finita l’emergenza o, quanto meno, una volta rodata la convivenza con il virus – tutto il sistema economico-fiscale.
La c.d. “economia non osservata”
Il problema principale ed atavico del sistema è, da sempre, la c.d. “economia non osservata”. Si tratta di quel valore derivante dalla somma di quanto generato dall’economia sommersa e dalle attività illegali, che sfugge ai conti nazionali.
L’economia sommersa è quell’insieme di attività che – generando ricavi – contribuiscono al prodotto interno lordo e, dunque, sono tecnicamente osservabili; tuttavia, nella realtà, sfuggono all’indagine statistica. Ciò, perché si tratta di attività i cui scambi non seguono i canoni dettati dalle relative normative nazionali e non vi sono operazioni registrate.
I mercati su cui si svolgono tali scambi irregolari, che contribuiscono a formare l’economia sommersa, sono il mercato del lavoro e, per quanto riguarda i beni o i servizi, i mercati tipici (regolari o irregolari) che contemplano la prassi della sottofatturazione. Ciò accade, ad esempio, per le prestazioni professionali, i servizi sanitari, le riparazioni domestiche; ugualmente nel contrabbando di beni o nei rapporti economici tra imprese, nei quali, ai fini di evadere il fisco, si tende all’imputazione fittizia delle spese, alla sottovalutazione di prodotti venduti o servizi resi, ecc.
I numeri e le fonti dell’economia sommersa
L’intero valore dell’economia non osservata può computarsi, secondo i dati Istat pubblicati nel 2019 e relativi al 2017, in poco meno di 211 miliardi di euro, circa 3,5 (quindi, l’1,5%) in più rispetto al 2016.
L’economia sommersa vale 192 miliardi di euro, di cui 97 imputabili alla pratica della sottodichiarazione che spesso, però, si intreccia con la seconda fonte di sommerso, ovvero l’impiego di lavoro irregolare, che vale 79 miliardi. Salta all’occhio, allora, l’incidenza di quest’ultimo fenomeno che diventa, in questo modo, il punto focale di un eventuale (e necessario) ripensamento dell’intero sistema della spesa pubblica.
Ci sono poco meno di quattro milioni di Unità di lavoro a tempo pieno (ULA) in condizione di non regolarità, circa lo 0,7 % in più rispetto al 2016, e si tenga presente che quando si conteggiano le ULA non si conta “per teste”: se, ad esempio, due lavoratori sono divisi su due turni per occuparsi delle medesime mansioni, ai fini dell’indagine ISTAT, valgono una sola ULA.
Ma che cos’è esattamente il lavoro irregolare? In cosa consiste?
Il lavoro irregolare è quella pratica per cui il datore di lavoro, non adempiendo a quello che ex lege è un suo specifico onere, non comunica l’assunzione al Centro per l’impiego e, in questo modo, rende quel determinato rapporto di lavoro subordinato sconosciuto allo Stato, con conseguente omesso versamento dei contributi all’INPS e delle tasse all’Erario e, naturalmente, in assenza di un regolare contratto di lavoro. Quasi 3 dei 3,7 milioni di ULA impiegate irregolarmente sono lavoratori dipendenti; quindi la parte predominante di lavoro irregolare segue lo schema (illecito) appena tratteggiato.
Nel mondo del lavoro autonomo lo schema si capovolge, passando da un lavoro nero “subìto” ad un lavoro nero “richiesto”, per cui il prestatore di lavoro, a fronte di un’attività o servizio, pretende di essere pagato in nero, con conseguente elusione degli oneri fiscali. Ciò accade specialmente per prestazioni a carattere saltuario o quando la prestazione oggetto della specifica transazione sia un “secondo lavoro”.
Secondo i dati dell’ultima indagine INPS le ULA irregolarmente assunte nel settore dei servizi sono 2.935.000; seguono i circa 500.000 nel settore industriale e 200.000 in agricoltura/silvicoltura/pesca.
Quest’ultimo comparto, in particolare, risente negativamente del contributo di due vere e proprie piaghe sociali: il caporalato e lo sfruttamento minorile, concetti che spesso, purtroppo, tendono anche a sovrapporsi tra loro.
Il caporalato è quel fenomeno che si fonda sullo sfruttamento della manodopera a basso costo, organizzata e gestita da una figura che funge da intermediario (il caporale). Spesso, quando parliamo di manodopera a basso costo, facciamo riferimento al reclutamento di soggetti “ad alto grado di vulnerabilità”, come donne, bambini e cittadini extracomunitari. Questi ultimi, soprattutto, risentono dei limiti linguistici e della loro stessa condizione clandestina, ritrovandosi ad essere reclutati illecitamente per lavori agricoli e/o edili stagionali, ad essere sottopagati ed a vivere in baraccopoli o accampamenti di fortuna, privi perfino delle minime dotazioni igienico-sanitarie. Proprio tale ultimo punto, come è facile immaginare, ha destato le preoccupazioni dei sindacati – in particolare della Flai CGIL – che in piena emergenza ha pubblicato una lettera aperta per porre maggiore attenzione a questo delicatissimo tema. Infatti, se è vero che dal 2016 (legge n. 199/2016) l’Italia si è dotata di una specifica normativa in materia di caporalato, è pur vero che tale normativa – tralasciando del tutto l’incidenza della criminalità organizzata sul propagarsi del fenomeno in oggetto – ha determinato dei punti di vuoto legislativo. Proprio a tal fine, il Ministero del Lavoro ha di recente adottato il Piano triennale di contrasto al caporalato che, si auspica, potrà fornire idonea protezione ai lavoratori sfruttati soprattutto in pendenza di stato emergenziale. Peraltro, non risultano destituiti di ogni fondamento i timori di alcuni commentatori politici e giuristi che, data l’obbligata assenza di lavoratori ‘stagionali’ per quest’anno, vede necessaria una sorta di sanatoria generale per i lavoratori extracomunitari, che permetta alla filiera agroalimentare di non subire le gravi conseguenze dell’assenza di forza lavoro.
Lo sfruttamento minorile consiste, invece, nella violazione del divieto di instaurare un rapporto di lavoro con un minore di 16 anni, che diventa 18 nei casi di lavoro usurante. Lo scopo del divieto è quello di evitare la diserzione dell’obbligo scolastico, nonché eventuali pregiudizi alla salute e alla crescita psico-fisica del minore.
Secondo gli ultimi dati disponibili, in Italia sarebbero 340.000 i bambini e adolescenti costretti al lavoro: nell’edilizia, in agricoltura, presso i chioschi abusivi o nei mercati del pesce e ortofrutticoli. Molti, inoltre, i piccoli ambulanti abusivi. Spesso le paghe si aggirano – e parliamo tendenzialmente di bambini tra i 10 e 14 anni – tra i 50 e i 90 euro a settimana. Già gli anni scorsi si registravano piccoli ma costanti incrementi dei casi di sfruttamento minorile (1.437 sono solo le violazioni penali accertate dal 2014 al 2018), spesso celato dietro la fittizia qualifica dell’impresa come “a conduzione familiare”, ma con le difficoltà economiche generate dalla pandemia tali numeri potrebbero salire. Si pensi che, ad oggi, un vero e proprio rapporto di monitoraggio non esiste, se non quanto ricavabile in via indiretta dalle predette tavole Istat.
Un’ultima considerazione
Spesso, come anticipato, i due ultimi fenomeni trattati – caporalato e sfruttamento minorile – si intrecciano. A volte, infatti, sotto la direzione dei caporali si ritrovano giovani immigrati: per loro non esiste copertura normativa, perché per lo Stato (letteralmente) non esistono. Tutto ciò, nel 2020, è inaccettabile ma, forse, il monitoraggio, la vigilanza, il controllo non sono gli unici strumenti utilizzabili. Per quanto utopistico possa apparire, infatti, le operazioni di tracking che verranno messe in piedi dal Governo per fornire supporto anche ai lavoratori irregolari, potrebbero (e dovrebbero) spingersi fino alla delimitazione definitiva del fenomeno, così da predisporre una cornice giuridica analitica e sufficientemente dettagliata, che miri a disciplinare – e sanzionare – tutte le diverse, e spesso sfuggenti, declinazioni che assume il lavoro irregolare.