Sembra oramai più che retorico chiedersi come stia messa la politica oggi. Quante volte ci viene spontaneo pensare: come siamo arrivati a questo punto? Su quale strada inerpicata si è andata sgualcendo la pregiata veste del Bel Paese? Politologi italiani e stranieri tentano da anni di sbrogliare la matassa delle possibili risposte, analizzando eventi storici, modelli e statuti valoriali di riferimento dell’apparato politico nazionale al fine di decodificare e ricostruire quanto avvenuto. Non ho la pretesa di convogliare in pochi caratteri tutta la riflessione scientifica sul tema, ma tenterò di dare una chiave di lettura di quanto da trent’anni a questa parte stia accadendo. E ciò soprattutto alla luce di un quesito ancora più aperto e irrisolto, ma che pone l’accento su un’istanza impellente: qual è il posto di noi giovani nel mondo aggrovigliato e impervio della politica odierna?
Non è poi così difficile prospettare un paradigma generale capace di spiegare com’è cambiato il leaderismo politico degli ultimi anni. Uno schema consolidato che non muta al mutare degli interpreti, dei partiti, delle denominazioni, delle innovazione tecnologiche che hanno aggiornato fino a “formattare” la politica e i suoi canali di interazione con un elettorato sempre più pubblico da talk show, per poi essere trasformato in prodotto da consumare alle elezioni. Una traccia sedimentata nell’identità genetica di un paese che non stenta a nutrire ancora oggi quello spirito diviso e frammentato che poi ha caratterizzato l’anima di questo paese sin dal suo sorgere. Sembrano ancora riecheggiare le infauste parole di Massimo D’Azeglio che all’indomani dell’unificazione nazionale ammoniva: “Fatta l’Italia, bisogna fare gli italiani”.
Potremmo affermare che la parentesi pre-populista si è aperta proprio in quel 1994 con la crisi dei partiti che favorirà man mano l’ascesa dei singoli leader politici: Silvio Berlusconi, allora forte della sua verginità politica e dell’immagine di self made man, riesuma dalle viscere della storia del nostro paese quel mito dell’uomo nuovo, con in mano un sogno per il nostro paese, presentandosi come l’autentico profeta del cambiamento. D’altronde, in questo paese c’è sempre bisogno di una bella boccata di aria fresca, di cambiare tutto sempre per non cambiare niente. Da quel momento in poi, a intervalli sempre più brevi dal 2011 in poi, i leader politici hanno cominciato a succedersi l’un l’altro impersonando lo stesso tipo di narrazione politica, lo stesso copione scritto per la prima volta nei torbidi anni di Tangentopoli, ma con mezzi diversi. In un momento di forte crisi politica del paese prende il sopravvento una figura politica carismatica, l’uomo nuovo per l’appunto, che si presenta come colui che può davvero cambiare le cose, che può risolverle attraverso la propria ricetta per il rinnovamento. Una ricetta presentata come panacea e fatta quasi sempre di risposte semplici – in barba a chi dice che questo paese ha problemi seri e complessi – che erano proprio lì, sotto gli occhi di tutti. Berlusconi con l’abolizione dell’Imu sulla prima casa; Renzi con gli 80 euro, che mostrava una sinistra della terzi via, quella che faceva le cose per davvero, risoluta e imponente, come i nomi delle sue riforme (a.e. “Jobs Act”); poi il Movimento Cinque Stelle, nato nelle piazze dal sentimento di rifondazione della politica, che nonostante l’assenza di un leader – se non di uno spirituale – avrebbe dovuto incarnare la voglia di rigenerazione di un paese, eppure non è sfuggito a quello schema: dovevano aprire il Parlamento come una scatola di sardine e introdurre misure a sostegno dello stato sociale come il reddito di cittadinanza, sono finiti per suicidarsi politicamente tra alleanze discutibili e scivoloni politici licenziando una misura che sembra la versione più sparuta ed esile di quello che era un progetto ben più ambizioso; infine Matteo Salvini, che è forse quello che rappresenta meglio degli altri il prototipo dell’uomo nuovo – il titolo di capitano non è un caso – si presenta colui che ha davvero le risposte, quelle più semplici ed efficaci ai problemi del paese: porti chiusi, navi bloccate, rosari in mano e flat tax e tanti, ma tanti selfie. Ora, a parte che i porti non sono mai stati chiusi, che ha perso la sfida con ogni nave che abbia tentato di bloccare al di là delle coste italiane visto che praticamente sono tutte sbarcate, lasciando perdere la discutibilità, oltre che costituzionale, anche perequativa di misure come la flat tax, il suo messaggio, la sua narrazione si fa sempre più forte e potente ogni giorno.
Se il modello non è cambiato per quanto riguarda il modus operandi di chi si è reso protagonista della politica del paese, non è mutato neanche l’esito di questo modo di fare politica, e ciò dipende soprattutto dal modo di percepire i risultati pratici da parte della popolazione: alla fine la proposta di punta di ciascun leader si è trasformata nel suo punto debole e il malcontento si è diffuso alimentato però quel bisogno di cambiamento che ha finito per saldare definitivamente questo circolo vizioso. Con una differenza: oggi i leader hanno una durata più breve. E le ragioni sono evidenti: se si parla alla pancia del paese, meno riflessiva di organi come il cervello, questa finisce per rigettare tutto con la stessa voracità con cui ha ingerito la portata.
Nel frattempo, 3000 km a nord dell’Italia, Sanna Marin classe 1985, cresciuta in una famiglia arcobaleno, diventa la premier più giovane al mondo, forma in Finlandia un governo di centro sinistra retto da una coalizione di larghe intese con altri 4 partiti – cosa che in Italia definiamo inciucio mentre altrove la chiamano democrazia – con a capo quattro donne di età simile alla sua. Sanna ai comizi non tiene il rosario in mano, è semplicemente una socialdemocratica che è andata al governo mettendo al centro del suo programma l’impegno per il sociale e l’ambiente. Lo so che in questo Paese viene d’istinto essere esterofili, però sapete, delle volte a ragionar di pancia non si fa sempre peccato se si guarda dalla parte giusta.
Già pubblicato su L’Altravoce dei Ventenni- Quotidiano del Sud 23/12/2019
Ostinatamente cocciuto dalla pedanteria degna di un vecchio attempato, ma indolentemente curioso come un fanciullo alle prime armi. Sin dal 1992 pronto a mettere sotto la lente della propria analisi prolissa se stesso e il mondo che lo circonda. Non più giovane studente di Giurisprudenza, lavora per mantenersi gli studi. Come non v'è sport che non abbia praticato, spesso con scarsi risultati, non v'è settore di interesse che non abbia indagato. La sua passione per la cucina, la filosofia giuridica e politica non hanno confini. Un buon senso dell'ironia si mescola ad uno scarso senso del pudore e ad un audace istrionismo, spesso questi trattati come se fossero dei talenti.