“La corrente ci fa paura perché non sai dove ti porta. Ma almeno significa che non stai affogando.” E’ con questa frase che Zerocalcare chiude la sesta puntata della sua ultima serie disponibile su Netflix, “Questo mondo non mi renderà cattivo”. Una miniserie di sei puntate che attraverso la narrazione del protagonista, intreccia attorno ad un filo principale, le storie dei vari personaggi.
La vicenda si apre con la polemica accesa da alcuni abitanti di quartiere a seguito dell’apertura di un centro di accoglienza nella zona, che ospita un gruppo di migranti sbarcato sulle coste italiane.
Zerocalcare, con la complicità della sua ironia, ci intrattiene in un racconto ricco di riflessioni sugli stereotipi della nostra epoca e sulle paure dei giovani.
Il sentirsi abbandonati, rifiutati dalla società contemporanea, emarginati perché “diversi”, induce spesso l’uomo a cercare un capro espiatorio, che rappresenta solo un mezzo attraverso il quale sfogare la rabbia ed il rancore repressi.
La storia di Cesare è in questo senso sintomatica della malattia che affligge l’epoca contemporanea: l’indifferenza.
Cesare, amico d’infanzia di Zero, nel corso dell’adolescenza prende strade sbagliate che lo portano a chiudersi in se stesso ed a trovare rifugio nell’eroina. Da un giorno all’altro sparisce dal quartiere, suscitando la perplessità di Zero, il quale poi scoprirà che il suo amico è ricoverato in comunità per curare la sua tossicodipendenza.
Uscito dalla comunità, dopo anni di lontananza dal quartiere, in cui “la sua assenza divenne una cosa normale”, Cesare, imbattendosi nuovamente nella realtà, si sente spaesato, disadattato.
In questo contesto trova la forza in un gruppo di scellerati, di “nazisti”, che vogliono fare la guerra a quel “pacco” di poveri immigrati chiuso nel centro di accoglienza; quelle persone che imbrattano i muri di “Tor sta ceppa” con scritte xenofobe, diffondendo odio e intolleranza.
La rabbia e la solitudine di Cesare emergono soprattutto nel corso del dialogo che intercorre con Zero. Quest’ultimo è uno che ha fatto fortuna, che è riuscito a svoltare da solo, che non ha bisogno di cercare lavoro, di procacciarsi i soldi per vivere. Il suo vecchio amico invece è un uomo abbandonato dallo Stato, che si sente emarginato in una società che non accetta i più fragili, che marchia quelle persone che nella vita hanno fatto dei passi falsi, commesso degli errori, e che non li aiuta a rialzarsi. Cesare allora è spinto a dare ragione ai nazisti e ad unirsi a loro, perché non crede sia giusto che lo Stato aiuti gli stranieri e che lasci invece in balìa del destino i cittadini italiani. Il personaggio di Cesare interpreta purtroppo un’eco comune nella nostra società.
La fragilità nella speranza verso il futuro è altrettanto tangibile nella storia dell’amica Sara. Una ragazza devota allo studio, con un sogno nel cassetto, diventare insegnante. Quelle porte che sembravano essersi spalancate dinanzi a lei dopo la laurea, la sensazione che il mondo la stesse aspettando, la percezione di avere un futuro davanti ricco di opportunità. Sara si ritrova con le ali spezzate dalla difficoltà del presente, dalla costante gavetta che è costretta fare per riuscire ad occupare un posto nella scuola. Il sogno infranto dalle persone che lavorano senza passione e che non le danno retta quando propone qualcosa che possa aiutare davvero a migliorare la scuola, il sogno infranto dagli anni di attesa prima di fare un passo in avanti, anni in cui si è sentita “legata a un palo”,” ferma là da sola a vede voi che diventate sempre più piccoli e più lontani.” Anche Sara occupa la fila degli insoddisfatti, facile preda di quei nazisti che vogliono aizzare le folle contro un capro espiatorio sul quale accollare le colpe di altri.
Zerocalcalcare ci consegna un quadro di giovani tormentati dall’ansia di realizzazione, dalla necessità di uscire dalla condizione di ristrettezza che avvertono sulle loro spalle.
La necessità di andare in direzione della corrente, per non affogare, ed in questo viaggio, convincersi di restare uniti per andare in contro ad un futuro migliore del presente.
L’idea che l’essere coesi rende più forti, che bisogna perseguire il proprio obbiettivo non dimenticandosi però di guardare all’altro, a chi sta peggio, e non lasciarlo indietro.
Aiutare chi ne ha bisogno, con la consapevolezza che sia la cosa giusta da fare, senza porsi troppe domande.
La certezza che ogni persona vive con i propri scheletri nell’armadio, con le proprie ansie e debolezze, e che tuttavia ciò non legittima a prendersela con chi sta peggio. Di questo messaggio si fa portavoce l’amico Secco che, rivolgendosi a Zero prima del corteo dinanzi al municipio, usa queste parole:“Te pensi che la gente è venuta qua perché così può pija l’ostia la domenica a messa? Qua tutti c’hanno talmente tanti cazzi che ce potresti fa un fumetto intero sulla vita di ognuno. Però non li usano come scusa per fa’ gli stronzi con gli altri che stanno peggio.”
Il futuro è incertezza, è sacrificio, è speranza ma anche disillusione. Il futuro spesso restituisce legami dissolti, immagini sbiadite. E’ un vortice di oggetti dei nostri desideri, che spesso vengono spazzati via dal vento o che si impadroniscono di noi stessi tanto da non permetterci di vedere oltre.
E’ il vedere oltre che spesso ci salva dall’ansia del futuro, di cui è piena la nuova generazione. Il riuscire a guardare oltre il dovere, il lavoro, il posto da occupare nel mondo. Un posto che alle volte è difficile da trovare, o da recuperare, e che tuttavia, godendosi il viaggio, fatto di discese e risalite, può essere bello aspettare.
Camminare, giorno dopo giorno, verso una destinazione, alcune volte più tangibile, altre meno, con la consapevolezza di essere abbastanza così come siamo, senza troppo esitare a far emergere quello che custodiamo dentro. Perché il futuro è così che ci aspetta, aspetta di vederci ognuno immerso nella propria diversità, che emette una luce propria, un bagliore di autenticità.
Articolo pubblicato su Il Quotidiano del Sud – L’Altravoce dei ventenni