La serie Netflix su San Patrignano riesuma un dilemma mai risolto: fino a che punto la violenza è la soluzione?
È il 1978, ci troviamo a San Patrignano, una piccola realtà del riminese, quando Vincenzo Muccioli un uomo dalla promiscua personalità, decide quantomeno a suo dire , di sostituirsi allo Stato, per fronteggiare uno dei problemi che maggiormente affligge la società in quegli anni: l’eroina, o forse i suoi consumatori.
L’Italia degli anni Settanta, si trova improvvisamente sommersa da una problematica di non poco conto.
Migliaia di giovani si trovano risucchiati da un vortice di dipendenza, quasi inconsapevolmente, difatti i terribili effetti di questa amata e maledetta sostanza, vengono scoperti sulla pelle degli stessi consumatori, dato che prima d’allora nessuno ne aveva sentito parlare, e forse solo dopo l’avvento di Muccioli qualcuno aveva iniziato a parlarne.
Vicenzo Muccioli, uomo di umili origini, dopo essersi sposato con Maria Antonietta Capelli, riceve in dono dal suocero una tenuta di campagna, all’interno della quale inizia a sperimentare diversi tipi di produzione, per poi improvvisamente decidere di trasformare la tenuta in quello che oggi viene comunemente identificato una comunità di recupero per tossicodipendenti.
Chi entrava a far parte della stessa, doveva rigorosamente sottostare alle regole imposte e non discusse dal grande capo Vicenzo.
Chi entrava non poteva più uscire, quantomeno fino al nullaosta, qualora scappasse – cosa accaduta frequentemente – veniva riacciuffato e se la ribellione veniva considerata esagerata, il latitante una volta ripescato veniva segregato in una “cella” appositamente predisposta o diversamente spedito nei reparti punitivi.
All’interno della comunità, si lavorava ininterrottamente, ogni nuovo membro era sempre accompagnato da un altro più grande e più esperto – un angelo custode- che non lasciava mai il novellino neanche per espletare i propri bisogni fisiologici e, cosa molto significativa, per il primo anno di soggiorno non era possibile ricevere visite dai famigliari. E dopo il primo anno i membri non potevano comunque restare da soli con le proprie famiglie.
La privacy non era rispettata neanche per la corrispondenza, ogni lettera veniva aperta, letta, e se idonea spedita, diversamente cestinata.
In questo modo, qualsiasi possibilità di richiedere aiuto veniva vanificata.
Diciamo che Muccioli aveva sperimentato per bene il sistema di produzione e certamente di disintossicazione, non facendo tuttavia i conti con lo spirito di sopravvivenza intrinseco negli esseri umani.
Nei primi anni Ottanta una giovane, ospite (si fa per dire) di San Patrignano, scappò dalla comunità e si recò dalle forze dell’ordine per denunciare Vincenzo Muccioli.
La ragazza raccontò di essere stata rinchiusa e legata in una stanza, lasciata all’interno della stessa per giorni, in condizioni precarie e per nulla igieniche. Insieme a lei, il Muccioli aveva segregato altri quattro ragazzi, tutti rinchiusi in delle piccionaie o nel canile della comunità.
Abbandonati lì dentro, al fine di evitare una nuova fuga e di interrogarsi sul loro stesso atteggiamento.
Alla luce di quanto esposto dalla giovane querelante, le forze dell’ordine fecero irruzione a SanPa, all’interno della “comunità” trovarono giovani ragazzi, considerati ribelli, legati e rinchiusi così come detto dalla fuggitiva.
Questo fu l’evento scatenante che spaccò l’opinione pubblica in due e, a ben pensare, persino la giustizia.
Vincenzo Muccioli, venne arrestato, dopo che le forze dell’ordine fecero irruzione a San Patrignano.
L’accusa era quella di : sequestro di persona.
Dalle testimonianze raccolte fu possibile stabilire che all’interno della comunità, nel bene o nel male, i membri – qualora venisse ritenuto idoneo -venivano picchiati e legati in luoghi degradanti e, neanche a dirlo, senza alcun rispetto delle norme igienico sanitarie.
Condannato in primo grado e assolto in appello, Muccioli supportato da particolari amicizie era diventato, nel frattempo, l’uomo più popolare d’Italia.
Accarezzato dalla politica e conteso dalle televisioni, il suo metodo venne considerato quasi all’unanimità insindacabile.
Tutto ciò, fin quando due ospiti non volarono dal balcone e un terzo, con la scusa della pena rieducativa, non venne picchiato a morte dai membri della comunità stessa, i quali si preoccuparono di far sparire il cadavere che misteriosamente giunse a Napoli.
A fronte di tre morti e qualche violazione dei diritti umani, però, migliaia di persone si disintossicarono e altre restarono a San Patrignano per sempre. Nel frattempo, San Patrignano era divenuta una città a tutti gli effetti, all’interno della stessa venne costruito un ospedale per curare gli ospiti della comunità.
Sostanzialmente San Patrignano risultava essere così completa e servita, che per uscirne erano rimaste solo due possibilità: o ne uscivi disintossicato oppure dentro una bara.
Più di quarant’anni dopo, l’interrogativo resta lo stesso: il fine giustifica i mezzi?
Il consenso ad essere trattenuti con la forza, prestato nella sottoscrizione del contratto tra il membro e il Muccioli, doveva essere considerato irrevocabile?
In buona sostanza, per quanto detto dalla Corte d’appello, a cosa andavi incontro lo sapevi, era la droga a spingerti a scappare e quindi Muccioli era stato bravo.
Se il fine giustifica i mezzi è un interrogativo che lascio ad ognuno di voi, a me resta la consapevolezza che la dignità umana non soffre di crisi d’astinenza.