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Quando bisogna scegliere tra il lavoro e la pandemia

Il binomio giovani e lavoro è sempre stato una nota dolente in Italia. Basta tornare con la memoria a quel periodo della storia del nostro paese in cui venne sdoganato il trash politico a cui oggi siamo tanto affezionati.

Correva l’anno 2008, quando una giovane donna osò chiedere ad un ormai ex premier, famoso per il bunga bunga, come potesse un giovane mettere su famiglia e richiedere un mutuo vista la già alta precarietà lavorativa. La risposta che ricevette è ormai parte della leggenda: “Da padre il consiglio che le do è quello di cercarsi il figlio di Berlusconi o di qualcun altro che non avesse di questi problemi. Con il sorriso che ha potrebbe anche permetterselo”.

La pandemia ha evidentemente e inevitabilmente peggiorato, quindi, una situazione già, di per sé, molto delicata. Secondo l’Osservatorio Internazionale del Lavoro (OIL) l’impatto del virus si sta rivelando devastante. Il Direttore Generale dell’OIL Guy Ryder ha infatti affermato che “Così come dobbiamo raddoppiare i nostri sforzi per sconfiggere il virus, dobbiamo agire con urgenza e su larga scala per mitigarne l’impatto economico, sociale ed occupazionale”. Basti pensare che ad agosto, in Italia, il tasso di disoccupazione tra i giovani è salito dello 0,3%, assestandosi al 32,1%. Ciò significa che circa un giovane su 3 non riesce a trovare lavoro. Qualora però il lavoro (o una sua parvenza) esistesse come si fa a scegliere tra la possibilità concreta di contrarre il virus e l’opportunità di lavoro spesso, comunque, precario?

Si fa presto a dire lavoro, ma può ancora essere considerata una vera possibilità quella che mette a repentaglio un diritto fondamentale come quello alla salute? Sappiamo già molto bene che le regioni italiane che offrono maggiori occasioni lavorative, a tutti i livelli, sono anche alcune di quelle con il maggior numero di casi di Covid 19.

Ammettiamo quindi per un attimo che siate un giovane professionista che, a seguito dello scorrimento di graduatoria, viene chiamato a lavorare in una regione diversa da quella di residenza. Voi partireste? e se il contratto proposto è uno di quelli definiti “Covid”, cioè che viene rescisso lasciandovi a casa, senza stipendio, nel caso in cui un DPCM decretasse la chiusura della vostra attività? La scelta non è così scontata e semplice come potrebbe sembrare. L’investimento emotivo ed economico derivante dall’intraprendere un trasferimento a seguito di una occasione lavorativa a breve o a medio termine, che sono le esperienze che vanno per la maggiore, è comunque ingente. Come è ingente il carico emotivo ed economico del restare in una regione che non offre alcuna possibilità di lavoro o che comunque non offre nessuna occasione di accedere al lavoro che vorremmo. In questo marasma etico troviamo da una parte gli afflitti: quelli distrutti, schiacciati e annichiliti dalla scarsezza di risorse e occasioni che direbbero sì anche se gli offrissero un impiego su Marte, categoria di cui io faccio orgogliosamente parte; e gli irriducibili: quelli che ricercano l’impiego perfetto che si confaccia al meglio alle loro esigenze di vita e di salute, come tutelarsi da una pandemia mondiale. Se vivessimo in un mondo esemplare, ogni datore di lavoro tutelerebbe i propri dipendenti, proponendo soluzioni smart e distribuendo DPI come mentine a chi soffre di alitosi.

È giusto, lecito, umano che si debba ancora scegliere tra un lavoro dignitoso e la propria salute?

Già pubblicato su L’Altravoce dei Ventenni-Quotidiano del Sud 02/11/2020