Camminare è una delle azioni più antiche del mondo. Non si è mai sentito di un’epoca storica in cui gli uomini non camminassero; anzi, in alcune epoche le gambe di ciascuno costituivano l’unico mezzo possibile per spostarsi da un luogo all’altro.
I cammini e la fatica hanno fatto parte della mia vita più o meno da sempre. Montagne italiane attraversate in lungo e in largo consumando suole. La via Francigena prima, il Cammino di Santiago poi. Esperienze intense, diverse di volta in volta e uniche nel loro genere. Il detto tutte le strade portano a Roma può ironicamente dare un’idea di quante siano le Vie Francigene a livello teorico: tante, in tutta Europa, con la città capitolina come unica destinazione. Storicamente, la Via Francigena (anche detta Francisca o Romea) rappresentava un fascio di percorsi, detti anche vie romee, che dall’Europa occidentale in particolare dalla Francia conducevano nel Sud Europa fino a Roma proseguendo poi verso la Puglia, dove vi erano i porti d’imbarco per la Terrasanta. Io sono partita in Abruzzo, da Ortona, e sono arrivata a Roma, passando per infiniti colli, paeselli e boschi. Un paesaggio più brullo e più affollato l’ho trovato in Galizia, sulla via per Santiago di Compostela. Il Cammino di Santiago – il pellegrinaggio per eccellenza, il più famoso al mondo – è una rete di itinerari che, a partire dal Medioevo, i pellegrini hanno percorso attraverso l’Europa per giungere alla Cattedrale di Santiago di Compostela presso la quale si troverebbero le reliquie dell’Apostolo San Giacomo. A oggi, l’itinerario più utilizzato è il cosiddetto Cammino Francese, lungo circa 800 km e che normalmente viene percorso in circa un mese, partendo dalla città francese di Saint-Jean-Pied-de-Port. Altri Cammini sono quello Portoghese, quello del Nord e quello Primitivo, il più antico percorso di pellegrinaggio. Le uniche costanti di tutti i miei cammini sono stati il peso dello zaino sulle spalle (non troppo, mai più del 20%-25% del proprio peso corporeo) e un compagno di viaggio accanto.
Il cammino – a differenza del più banale e blasonato trekking – non significa solo percorrere un tratto di strada più o meno lungo: è un percorso volto alla ricerca e alla scoperta della propria interiorità e, perché no, anche di quella dei propri compagni di cammino, compresi i limiti fisici e psicologici che ognuno di noi ha. Viaggiare a piedi ti offre una prospettiva unica al mondo. Ti consente di vedere i luoghi “dal basso”, senza sorvolarli pigramente, di scorgerne gli odori, i sapori e le emozioni di approdare in un nuovo posto, consapevole di avercela fatta con la sola forza delle gambe e la tenacia del cervello. Viaggiare a piedi ti costringe ad essere lento: anche quando vorresti andare più spedito, non puoi. E’ il cammino che decide, non tu. Non c’è cammino troppo lungo per chi cammina lentamente e senza premura; non c’è meta troppo lontana per chi vi si prepara con la pazienza: tutti i camminatori lo sperimentano, prima o poi.
Camminare e pensare sono due verbi che si sovrappongono. Da quando l’Homo Sapiens è riuscito a camminare su due gambe è iniziata la vera evoluzione della specie umana. Socrate, Platone e Aristotele erano avidi camminatori e gran parte delle loro teorie sono state sviluppate proprio camminando.
Come scriveva Søren Kierkegaard, filosofo, teologo e scrittore danese dell’Ottocento, “I pensieri migliori li ho avuti mentre camminavo.” Recenti ricerche della Stanford University spiegano come questo non sia un caso; come scrive Erling Kagge, ex esploratore norvegese nel suo libro Camminare, un gesto sovversivo, “Quando muoviamo il corpo, muoviamo anche i nostri pensieri e le nostre emozioni, tutto si libera e circola”. Cosa che non succede, invece, quando si corre, perché la velocità tende a limitare il pensiero: mentre si corre si tengono a distanza i pensieri e le emozioni. Nella vita di tutti i giorni, la nostra nemica principale è la fretta. Non avere tempo, semplicemente: oramai, utilizzare la mancanza di tempo come scusa è la prassi.
Durante i cammini si impara a non avere altro da fare se non – semplicemente – camminare. Tutto ruota intorno a questo. Si comprende immediatamente quali sono le priorità e quali, invece, le zavorre delle quali occorre liberarsi. Quello che ho imparato di più dal mio “incespicare testardo” è che ci vuole umiltà per intraprendere un cammino. Bisogna essere disposti a mettere in discussione una parte di noi che, di solito, corrisponde alla parte che la vita frenetica di tutti i giorni ci costringe a nascondere. La bellezza dei cammini è proprio questa: ti sanno condurre dove vogliono, basta soltanto che tu voglia lasciarti trasportare.
Articolo pubblicato su Il Quotidiano del Sud – L’Altravoce dei ventenni
Classe 1996, milanese e iperattiva. Laureata in giurisprudenza, trascorre le sue giornate cercando soluzioni. Nel tempo libero scrive e legge, soprattutto gialli nordici e saghe familiari. Ama la montagna, le giornate uggiose, la musica folk e i cappotti. Ha fondato il blog amarettievino.