Gli elettori (sempre meno numerosi) hanno scelto la coalizione guidata da Giorgia Meloni
«L’estate sta finendo»: l’inno vacanziero dei Righeira somiglia a un perentorio sprone per la nuova classe dirigente designata dal voto del 25 settembre. Il tempo delle risse e delle provocazioni verbali a uso delle piazze e dei social network è ampiamente scaduto, sia perché gli elettori (mai così pochi dalle prime elezioni libere dell’era repubblicana) hanno espresso un mandato chiaro, sia perché le prossime settimane metteranno a durissima prova la tenuta di un paese provato dall’emergenza sanitaria e dagli effetti della guerra in Ucraina.
La netta vittoria di Giorgia Meloni – passata in meno di un decennio dalle retrovie del centro-destra alla guida di una coalizione in cui le posizioni radicali hanno soppiantato le forze moderate e conservatrici – è stata letta da molti come l’anticamera di un nuovo 1922, stante la singolare coincidenza con il centenario della marcia su Roma. Questa lettura – assecondata per gran parte della campagna elettorale dal Partito democratico e dai suoi alleati di sinistra – non coglie appieno le ragioni di un successo elettorale così ampio: Fratelli d’Italia cavalca un malessere diffuso – quasi mai intercettato da una sinistra incapace di andare oltre il feticcio dell’«agenda Draghi» – che non si esprime soltanto nella diffidenza (tracimata spesso e volentieri nell’intolleranza) verso tutte le espressioni e le culture della diversità, ma anche nel disagio profondo di ampie fasce della popolazione, che hanno peregrinato in questi anni tra la Lega e il Movimento 5 Stelle in cerca di risposte concrete ed efficaci. Tuttavia, la concretezza sbandierata in campagna elettorale da Meloni potrebbe essere smorzata dalle tante insidie che complicheranno la navigazione del nuovo governo: la contrazione del potere d’acquisto degli stipendi, la sopravvivenza di aziende e imprese sfiancate dall’aumento dei costi di produzione, l’ipotesi neppure troppo velata che alcuni servizi essenziali possano essere sacrificati sull’altare del risparmio energetico sono soltanto tre dei tasti scoperti che la pur disorganica coalizione neroazzurra dovrà affrontare senza indugi. Al tempo stesso, Meloni è attesa a un’altra prova delicata dal punto di vista istituzionale: sciogliere ogni ambiguità sulla collocazione internazionale dell’Italia. Le posizioni eterogenee del centrodestra sia sul conflitto russo-ucraino, sia sulla liceità delle politiche perseguite dalle cancellerie dell’Est Europa – a cui la presidente del Consiglio in pectore e Matteo Salvini, peraltro ridimensionato dal verdetto elettorale, guardano con malcelata benevolenza – hanno già sollevato le obiezioni dei principali osservatori europei, in testa la presidente della Commissione UE, Ursula von der Leyen. Infine, sarà interessante valutare l’atteggiamento del nascente esecutivo sul tema dei finanziamenti collegati al Piano nazionale di ripresa e resilienza: Bruxelles attende l’approvazione delle riforme già annunciate dal governo Draghi, a cui è vincolata l’erogazione di ampie fette dei fondi comunitari.
La larga vittoria del centro-destra evidenzia una volta di più i limiti e le contraddizioni del Partito democratico: fallito il progetto di un «campo largo» con cui contrastare (almeno nei numeri) lo schieramento avversario, Enrico Letta ha condotto una campagna elettorale contraddittoria, che si può sintetizzare in tre mosse fallimentari: la promessa di esibire gli «occhi di tigre» per battere Meloni e i suoi alleati, l’intesa annunciata e poi fallita con Carlo Calenda, la comunicazione controproducente sui social network, riassunta dalla poco memorabile gaffe sulle devianze. Mal consigliato dalla sua stessa segreteria, incapace di accattivarsi le simpatie dell’elettorato più giovane, tiepido nelle sue apparizioni televisive, Letta aveva due alternative: perdere con onore o affondare, per di più senza una scialuppa di salvataggio a cui aggrapparsi. Ha scelto con raro cinismo il naufragio, imbarcando forze politiche dal peso specifico modesto (il cartello formato da Verdi e Sinistra Italiana, +Europa) o del tutto irrilevante (Impegno Civico, il micropartito degli ex 5 Stelle bocciato sonoramente dalle urne).
Eppure, la legge elettorale imponeva alleanze strategiche sia per limitare gli effetti del premio di maggioranza, sia per affrontare ad armi pari la sfida nei collegi uninominali. E invece, il nipote d’arte è riuscito a portare quel che resta del PD ai minimi storici, peggiorando addirittura il risultato elettorale che obbligò Matteo Renzi a lasciare la segreteria nel 2018. Certo: un’alleanza con il Movimento 5 Stelle avrebbe inevitabilmente creato dissidi e tensioni (il ricordo del «partito di Bibbiano» era ed è ancora vivo), ma avrebbe imposto ai democratici una scelta di campo inequivocabile. Così non è stato. E l’ex alleato di governo – rigenerato dalla leadership di Giuseppe Conte – è risalito fino a un dignitoso 15% che, a tutti gli effetti, pareva irraggiungibile fino a pochi mesi fa. Seppure trasfigurato dall’esperienza nel governo di unità nazionale e, prima ancora, dalle estemporanee alleanze con la Lega e il PD, il movimento fondato da Beppe Grillo (chiamatosi fuori dalla contesa elettorale: numeri alla mano, un punto a favore) si è presentato come un interlocutore credibile non solo per l’elettorato dell’Italia meridionale – il cui perimetro non può essere sprezzantemente circoscritto ai beneficiari del reddito di cittadinanza – ma anche per quei settori della società (in testa le classi popolari) disorientati dalla linea tecnocratica di Letta e del Partito democratico. Dalle tribune dell’opposizione, Conte si candida alla costruzione di un’alternativa di sinistra non più velleitaria – d’altra parte, non è più tempo di aprire le aule parlamentari come scatolette di tonno – bensì capace di insidiare a livello nazionale la sempre più pericolante egemonia del PD, oltretutto già sconfitto in diversi scontri diretti sui territori.
L’operazione centrista condotta da Carlo Calenda e Matteo Renzi per intercettare i voti in uscita dal perimetro democratico e da Forza Italia ha rivelato tutti i suoi limiti, soprattutto al di fuori dei grandi centri urbani: il 7,7% dei consensi dà la misura della debolezza di una proposta politica schiacciata dall’ingombrante personalità dei suoi contraenti, pur tuttavia destinati a tornare in gioco se l’attuale scenario parlamentare dovesse mutare di segno.
Il voto del 25 settembre ha infine rivelato l’inconsistenza di tutte le proposte antisistema germogliate sull’onda dell’esperienza grillina: il 4,5% racimolato dai vari Adinolfi, De Magistris, Paragone e Rizzo è la somma di debolezze che non possono neppure configurarsi come l’espressione di un malcontento radicato, bensì come l’ennesimo, infruttuoso tentativo di contarsi all’infuori dei poli tradizionali, oltretutto con l’aggravante di concedere spazio e visibilità ai più rodati campioni del complottismo (schierati in forze nelle liste di Italia sovrana e popolare e di Italexit).
Due amare constatazioni, infine: la cura dimagrante cui è stato sottoposto il Parlamento con il referendum del 2020 ha privato le regioni più piccole di una solida rappresentanza parlamentare, più che mai necessaria per portare all’attenzione dell’opinione pubblica questioni colpevolmente dimenticate nel corso della campagna elettorale, dallo spopolamento dei piccoli centri all’«inverno demografico» che minaccia la stabilità del nostro stato sociale. In secondo luogo, il prossimo Parlamento accoglierà in larga misura politici di lungo o lunghissimo corso, a scapito di donne e giovani che pure avevano trovato spazio nelle due precedenti legislature. Il domani fa paura anche così.
Nonostante sia cresciuto nell'era del digitale, si professa analogico e nostalmalinconico. Cultore di Springsteen, dei saggi storici e delle gassose, ha scoperto Venti in piena pandemia: amore a prima vista. Ricambiato, una volta tanto.