Vittoria Bussi, il ciclismo è (anche) matematica

Se è vero che il ciclismo è il girone per eccellenza dei temerari, degli istintivi e dei folli, fa strano pensare che la razionalità possa essere applicata alla bicicletta. Non si tratta, però, soltanto di seguire rigide tabelle di allenamento o di controllare continuamente il computer SRM installato sul manubrio per tenere sott’occhio le pulsazioni o i watt: il ciclismo, a volte, richiede la stessa concentrazione, la stessa perseveranza con cui si cerca l’incognita in un’equazione. Tanta perseveranza, un pizzico di istinto: così una dottoressa di ricerca in Matematica, Vittoria Bussi, ha scoperto il ciclismo dopo una giovinezza trascorsa sulle piste di atletica e una vita intera sui libri. La morte del padre ha spinto Vittoria a risolvere un’altra incognita. Solo che, questa volta, era una questione di cuore, non di numeri. La decisione di dedicarsi alla carriera di ciclista arriva un attimo dopo: due anni da professionista a tempo pieno, la strada che spesso si arrampica sotto le sue ruote ma non abbastanza da spegnerne desideri e ambizioni. Nel 2016, poi, la scommessa più difficile e intrigante: la ragazza romana di stanza in Piemonte decide di mettersi in proprio – fondando il BJ Team con il suo compagno, Rocco Japicca – per inseguire il sogno del record dell’ora. La matematica, in qualche modo, torna a scandire i suoi giorni, un giro di pista (e di orologio) dopo l’altro, metro dopo metro. La prima trasferta ad Aguascalientes, in Messico, è un corpo a corpo con i secondi, con i numeri, con i metri. 404, per l’esattezza: quelli che tolgono a Vittoria Bussi la soddisfazione del nuovo primato. Con i numeri, però, bisogna saper pazientare. E la ciclista laziale si prende la rivincita nel settembre 2018: 48,007 km percorsi in sessanta minuti. Vittoria ha rimesso a posto i frammenti di quel sogno lasciato in sospeso undici mesi prima. È il passo decisivo per pensare più in grande: le convocazioni nella Nazionale femminile, le due partecipazioni ai campionati del mondo a cronometro, con un 10° posto nella prova iridata disputata a Imola a fine settembre del 2020, l’argento nella prova contro il tempo ai campionati italiani, battuta solo da Elisa Longo Borghini, la numero 1 del nostro movimento. E un altro sogno da cullare: la partecipazione ai Giochi olimpici di Tokyo, rimandati al prossimo anno a causa della pandemia.

Ho raggiunto Vittoria Bussi mentre era in viaggio verso casa. Il ciclismo, certo, ma anche il primo amore della sua vita, la matematica. E un pensiero al suo passato da ricercatrice all’università di Oxford.

Una vita a metà strada tra la matematica e il ciclismo. Da cosa è nato questo connubio così particolare?
«Ho deciso di intraprendere la carriera accademica dopo la laurea specialistica in Matematica: così mi sono trasferita a Oxford per conseguire il dottorato di ricerca. Quando avevo già iniziato il percorso di post-dottorato, però, la vita mi ha portato ad innamorarmi del ciclismo e ad appassionarmi alla sfida epica del record dell’ora».

Perché hai scelto proprio il ciclismo, uno sport governato più dall’istinto che dai calcoli e dalla logica?
«Il ciclismo è entrato nella mia vita per caso: negli anni trascorsi in Inghilterra per il dottorato ho scoperto il triathlon (un’attività sportiva multidisciplinare che unisce nuoto, ciclismo e corsa su strada, ndr). In passato avevo praticato atletica e nuoto e perciò avevo pensato di cimentarmi con il triathlon sia per tenermi in forma, sia per differenziare lo sforzo fisico con varie attività. Un giorno, il mio attuale compagno mi ha regalato una bicicletta da corsa: è stato davvero amore a prima vista. Ho lasciato immediatamente il triathlon perché il mio obiettivo era andare forte in bicicletta».

Dopo due stagioni in gruppo con la Michela Fanini e la Servetto, che ti hanno consentito di partecipare a molte corse in linea, hai deciso di concentrarti esclusivamente sulle cronometro. Questa scelta è stata premiata dai risultati ottenuti nel 2020: la medaglia d’argento ai campionati nazionali, il quinto posto agli Europei di Plouay, il decimo ai Mondiali di Imola. Come mai hai scelto di privilegiare le prove contro il tempo?
«Il ciclismo è uno sport in cui non basta andare al massimo: bisogna anzitutto avere un buon bagaglio tecnico. Dal momento che ho iniziato a correre a 27 anni, ho scoperto di avere alcune carenze gravi, soprattutto nelle corse in linea. Pertanto, ho preferito le cronometro, che hanno molti punti di contatto con l’atletica leggera: in queste gare sei da solo, scandisci il tuo passo e le attitudini tecniche sono più sfumate».

Com’è nata l’idea di battere il record dell’ora, una sfida estremamente impegnativa non solo per la preparazione fisica e mentale che essa richiede, ma anche per l’investimento economico necessario per l’organizzazione delle due trasferte in Messico?
«Dopo la morte di mio padre, avvenuta nel 2012, la vita mi ha portato a riflettere su ciò che stavo facendo. Cercavo perciò qualcosa che mi rasserenasse e, allo stesso tempo, mi coinvolgesse appieno. Lo sport mi è dunque servito per placare il dolore: in questo modo, ho cominciato a stare bene con me stessa e ho capito che questa era la strada giusta da seguire. Il record dell’ora mi ha dato ancora più tranquillità, perché in pista sei da sola con i tuoi pensieri. Oltretutto, nei mesi di preparazione, non ho mai messo da parte la matematica: non a caso, il record dell’ora richiede uno studio meticoloso dell’aerodinamica, che può essere d’aiuto per andare più veloci».

In alcune interviste, hai dichiarato di aver incontrato non poche difficoltà all’interno delle squadre di club, esaltando invece l’ambiente della Nazionale. Che cosa ti ha colpita in negativo del mondo del ciclismo professionistico femminile?
«Quando sono arrivata tra le professioniste, si è preteso all’improvviso che potessi correre le classiche e le gare a tappe, ignorando completamente una serie di fattori che dovevano invece essere presi in considerazione. Ho constatato in prima persona che le atlete non vengono trattate come persone, come se ogni risultato fosse dovuto. Nei miei confronti c’è stata poca pazienza, soprattutto all’inizio: in pochi hanno avuto tempo e voglia di investire su di me. Da qui la decisione di fondare una mia squadra, di cui fanno parte quelle persone che credono in me e coltivano quei valori che ho ritrovato anche in Nazionale».

Lasciamo per il momento il ciclismo e soffermiamoci sulla sua grande passione per la matematica, a cui ha consacrato buona parte della tua vita. Quali differenze hai riscontrato tra l’ambiente accademico britannico e quello italiano? Secondo te, perché le generazioni più giovani fanno fatica a inserirsi stabilmente nelle nostre università, nonostante sia in atto un pur lentissimo ricambio generazionale?
«In tutta onestà, quando sono arrivata in Inghilterra per il dottorato, ho rivalutato l’intero sistema scolastico italiano, compresa l’istruzione superiore, perché la preparazione di base è eccellente – del resto, molti nostri connazionali vincono borse di studio. Il problema, però, è che vincono questi concorsi all’estero, proprio perché esiste una netta discrepanza tra le scuole superiori e l’università: chi vuole dedicarsi alla ricerca e alla carriera accademica è costretto ad andare via. Gli investimenti all’estero, infatti, sono decisamente superiori: un giovane che decide di seguire questa strada, per esempio, può partecipare ai convegni e stringere collaborazioni con scienziati e studiosi che vengono ospitati nelle università in cui i ricercatori lavorano».

Se l’emergenza sanitaria darà tregua, la prossima estate ci saranno le Olimpiadi estive. Quali sono le tue aspettative per Tokyo 2021?
«Partecipare alla cronometro olimpica sarebbe bellissimo. Tuttavia, partire per i Giochi vuol dire anche essere degni di una responsabilità così importante. Questo significa che bisognerà farsi trovare pronti per rappresentare nel migliore dei modi l’Italia sia nella prova a cronometro, sia nella corsa in linea».

Se un giorno decidessi di dedicarti alla politica sportiva, cosa faresti per promuovere la parità di genere e dare risalto alle ragioni delle donne?
«Ho sempre detto che, nel mondo dello sport, la vera parità potrà essere raggiunta soltanto quando gli eventi maschili e femminili avranno la stessa visibilità. È sufficiente parlare con qualcuno per scoprire che tutti conoscono il Giro d’Italia. Quando, però, spieghi che esiste anche il Giro d’Italia femminile (oggi ribattezzato Giro rosa, ndr), molti si stupiscono. Tutto questo dimostra che non abbiamo grande visibilità sui media. Se le corse femminili non vengono trasmesse in tv, non ci sono sponsor disposti a investire. Se non ci sono sponsor, di conseguenza, girano pochi soldi. E, se girano pochi soldi, le squadre lavorano male. Penso che debba muoversi per prima l’Unione ciclistica internazionale, prevedendo che le principali corse del calendario internazionale maschile e femminile si svolgano in contemporanea».

Una volta conclusa la tua carriera professionistica, c’è sempre la matematica che ti aspetta…
«Penso che sia abbastanza difficile riprendere la carriera accademica, perché l’ambiente universitario è persino più competitivo di quello sportivo. Questo non significa comunque metterci una croce sopra, anzi: se volessi coniugare ciclismo e matematica, mi piacerebbe dare una mano ai ragazzi nello studio dell’aerodinamica e nella scelta dei materiali, riproponendo loro ciò che ho imparato quando mi sono dedicata alla preparazione del record dell’ora».