A qualcuno piace schwa (ma ne vale davvero la pena?)

I paradossi del linguaggio inclusivo nel saggio di Andrea De Benedetti

«Io sottoscritta, Amelia Vigorita, padre di famiglia, con la mia buona volontà assegno la mia proprietà ai miei figli maschi legittimi e femmine disponibili». Il passo di un testamento di una donna napoletana che rivendica per sé anche il ruolo paterno, complice la totale dissennatezza del marito: niente di meglio per scatenare le ire delle femministe del XXI secolo e sollevare le immancabili accuse di patriarcato. Come uscire fuori, allora, dalla tentazione di rivisitare il passato a proprio piacimento, senza tenere conto della complessità delle trasformazioni sociali e culturali del nostro paese? Ecco perché il saggio di Andrea De Benedetti Così non schwa. Limiti ed eccessi del linguaggio inclusivo, pubblicato da Einaudi a fine maggio, non è soltanto un trattato sui nervi scoperti della comunicazione che, nel tentativo di accogliere tutte le minoranze, finisce paradossalmente per innalzare molte più barriere di quante ne voglia abbattere: questo libro propone anzitutto una lucida riflessione sulla sempre più diffusa tendenza alla prevaricazione – più congeniale a una curva calcistica che a un dibattito culturale – che ha caratterizzato in questi anni entrambe le fazioni in campo.

Una premessa necessaria per chi non ha seguito dall’inizio la discussione sul linguaggio inclusivo: che cos’è lo schwa? Questo suono – presente in numerosi dialetti, a cominciare dal napoletano – corrisponde a una vocale intermedia che, secondo i suoi sostenitori, supererebbe le classiche distinzioni tra il genere maschile e il genere femminile, eliminando ogni discriminazione sia quando si parla a un insieme indistinto di persone, sia quando ci si rivolge a individui non binari, vale a dire coloro che non si riconoscono nelle identità di genere maschile o femminile. La disputa sullo schwa – inaugurata nel 2019 dal libro della sociolinguista Vera Gheno Femminili singolari – ha pian piano guadagnato spazio soprattutto sul web e, in misura minore, sulle pagine culturali dei quotidiani.

Opinioni, voci e giudizi spesso scomposti che hanno purtroppo lasciato sullo sfondo due questioni fondamentali in materia di linguaggio e inclusione: da una parte, la necessità di rimodulare il codice linguistico e persino l’ortografia per accogliere una nuova lettera nella lingua italiana; dall’altra il rischio di creare una frattura tra una comunità tutto sommato minoritaria (i «sì-schwa»), il mondo delle istituzioni – a cominciare dalla scuola, che non potrebbe affrontare un nodo così spinoso senza prima fornire i necessari strumenti operativi a insegnanti ed educatori – e la stessa opinione pubblica, che potrebbe legittimamente non essere preparata sull’argomento. Per non parlare, poi, dell’abisso che divide la campagna pro-schwa dalle altre, sacrosante battaglie per estirpare la malapianta del sessismo nella lingua italiana: De Benedetti – già docente di Lingua e linguistica italiana all’università di Granada – sottolinea che la determinazione con cui i teorici dei linguaggio inclusivo hanno incendiato il web e i social media non è stata spesa per cancellare alcuni stereotipi largamente diffusi nella nostra lingua, su tutti il rifiuto di declinare numerosi nomi di professione al femminile (sindaca, avvocata, deputata, ministra, peraltro corretti sul piano morfologico e lessicale), come se i principali settori della vita pubblica fossero ancora dominio pressoché esclusivo degli uomini.

C’è poi un sottile ricatto morale – aggiunge l’autore – che soggiace alle campagne dei «sì-schwa»: chi non ammette l’uso di questo grafema e, in seconda battuta, degli asterischi al posto delle classiche desinenze è ostile al cambiamento e si colloca fuori dalla contemporaneità. Perché mai dovrebbe essere un minuscolo simbolo a qualificare la sensibilità di un uomo o una donna? È mai possibile mettere alla gogna chiunque non sia allineato alle posizioni dei leader di questa corrente di pensiero? Una visione oltranzista che ha innescato un curioso corto circuito: chi si impegna (almeno a parole) a combattere contro ogni forma di discriminazione si rende esso stesso promotore di azioni repressive – com’è del resto già accaduto in alcuni atenei nordamericani – per isolare chi dissente. Una rivendicazione di integrità morale a cui si può rispondere con il folgorante aforisma dell’ex segretario del Partito socialista Pietro Nenni: «C’è sempre qualcuno più puro di te che ti epura».


Articolo pubblicato su Il Quotidiano del Sud – L’Altravoce dei ventenni