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“Un pezzo di teatro di successo” – Patrizia Cavalli, la poetessa (anzi, il poeta) di tutti

Elsa Morante la definì “poeta”; “poetessa” la faceva ridere. E proprio a Elsa, dedicherà la sua prima raccolta, “Le mie poesie non cambieranno il mondo”, pubblicata da Einaudi nel 1974.

Ieri, 21 giugno, se n’è andata una delle più grandi protagoniste dell’arte poetica dei nostri tempi: Patrizia Cavalli, artista elegante ed essenziale, che sapeva parlare al grande pubblico e scrivere poesie dal suono eterno, leggero, musicale.

Le poesie di Patrizia Cavalli mi hanno sempre ricordato delle filastrocche. Seppur dolorose, alcune, hanno sempre avuto il merito di sapermi cullare, col ritmo serrato e metrico di una preghiera o di un brocardo. Patrizia Cavalli è una delle poche – se non l’unica – penna poetica che io sia mai stata in grado di apprezzare. E’ riuscita a realizzare i connubi più potenti, unendo la profondità con la leggerezza, il dolore con la resistenza, la musicalità con l’amore, l’amore con la malinconia. Sapeva parlare in modo buffo, ma anche estremamente irruento.

Le sue raccolte di versi, quasi tutte pubblicate da Einaudi, hanno segnato la storia della letteratura e quella di una delle collane più importanti di questo editore, la Collezione di poesia Einaudi, detta normalmente “la Bianca”: “Le mie poesie non cambieranno il mondo” (1974), “Il cielo” (1981), “L’io singolare proprio mio” (1992), riunite nello stesso anno in “Poesie” (1974-1992), “Sempre aperto teatro” (1999), “La guardiana” (2005), “Pigre divinità e pigra sorte”  (2006), “Datura” (2013), “Vita meravigliosa” (2020).

I suoi versi essenziali hanno travolto la vita di alcuni che, forse, non si sarebbero mai aspettati tanta sincerità dalla poesia. Io sono una di questi. “Cosa non devo fare per togliermi di torno la mia nemica mente: ostilità perenne alla felice colpa di esser quel che sono, il mio felice niente”. Patrizia Cavalli si è proposta il compito, più arduo, di dare parola ai misteri profani di cui tutti facciamo esperienza: all’indicibile nostalgia di settembre, che ogni anno, regolarmente, ci trafigge, e alle aspettative che maggio porta con sé; al ritmo instancabile della “nemica mente”, quando insegue e controlla ogni nostra ossessione; alla felicità e alle promesse. In ogni verso, il ragionare poetico di Patrizia Cavalli non cerca, ma trova, quasi come un neonato che, esplorando, conosce il mondo.

Se ora tu bussassi alla mia porta

e ti togliessi gli occhiali

e io togliessi i miei che sono uguali

e poi tu entrassi dentro la mia bocca

senza temere baci diseguali

e mi dicessi “Amore mio,

ma che è successo?”, sarebbe un pezzo

di teatro di successo.

Se qualcuno mi chiedesse di descrivere ora la mia adolescenza, probabilmente chiederei in prestito a Patrizia Cavalli questi versi. La gioventù è rude, impacciata, avventata. Sedimenta dentro di noi, “senza temere”. E allora se sono quello che sono oggi, un po’ lo devo anche a Patrizia Cavalli, artista unica, ironica, energica, dissacrante. Immortale mentre rimane “a guardare come si scioglie una nuvola e come si scolora, come cammina un gatto per il tetto nel lusso immenso di una esplorazione, adesso che ogni giorno mi aspetta la sconfinata lunghezza di una notte”.