Se penso agli anni ’20, la mia mente si dirige di corsa al film di Woody Allen “Midnight in Paris” in cui il regista newyorchese riunisce artisti dell’epoca per far rivivere al protagonista, tra estasi oniriche e un pizzico di realismo, una notte negli “anni d’oro”. Artisti, letterati, visionari che hanno regalato al loro tempo, e anche al nostro, un pò della loro genialità.
Francis Scott Fitzgerald, Salvador Dalì, Cole Porter, Ernest Hemingway.
Incredibili personaggi che hanno reso un’epoca altrimenti difficile, memorabile e a tratti fiabesca.
L’ingresso nel 2020 ha dato il via ad una serie di riflessioni sul nostro passato, del resto, l’inizio di una nuova decade suggerisce sempre di guardarsi indietro. Mentre ogni decennio ha le sue straordinarie sfaccettature, alcuni decenni sono caratterizzati da pietre miliari, scoperte o catastrofi degne di nota rispetto ad altri. Questo è certamente il caso degli anni ’20 – o dei “ruggenti anni venti” i roaring twenties – e, dal momento che ci siamo da poco affacciati ai nuovi ‘20, è interessante esaminare una serie di parallelismi che evidenziano le somiglianze e le coincidenze tra i due decenni. Ma sapete una cosa? Sono sempre stata brava in storia, per carità, ma non è di storia che voglio parlarvi adesso.
Entrare in una nuova decade è, quasi per forza, sintomatico di una grande svolta. Nel suo saggio del 1931 Echoes Of The Jazz Age, Fitzgerald ricorda gli anni ’20, quelli in cui
“ogni giorno in ogni modo cresceva sempre meglio… E sembrava solo una questione di pochi anni prima che gli anziani si facessero da parte e lasciassero il mondo venisse gestito da coloro che hanno visto le cose come erano – e tutto sembra roseo e romantico per noi che eravamo giovani perché non ci sentiremo più così intensamente nei nostri dintorni ”.
Il selvaggio tripudio degli anni ’20 (o almeno di quelli ruggenti) è contagioso anche a un secolo di distanza.
Oggi, nel 2020, vorrei poter dire anche io di essere ansiosa per il futuro, ma mi sento soprattutto allarmata. Mi preoccupo per l’eccessivo avanzamento tecnologico, che intorpidisce i nostri sensi ed emozioni; sono intimorita dalle divisioni nella nostra società. Provo, in qualche modo, a conciliare l’urgente necessità di fare qualcosa per la crisi climatica al triste pensiero che nulla che io faccia come individuo farà la differenza.
La gente, nel 1920, aveva appena vissuto una guerra mondiale e non aveva idea che non ce ne sarebbe mai stata un’altra, né immaginava che il boom del loro decennio sarebbe terminato con lo schianto di Wall Street del 1929 che diede inizio alla Grande Depressione. Erano semplicemente entusiasti ed estasiati dal cambiamento e pazzi per il futuro. Quindi eccoci, finalmente, 2020.
Penso che ci sia tanta incertezza e insicurezza nell’osservare il proprio tempo, per questo, provo a farlo attraverso il filtro della storia, tornando indietro di ben 100 anni. Ma la nostalgia può essere un modo imperfetto e persino pericoloso di pensare alle cose. Eppure è divertente provare a prendere qualcosa da un’era in cui non hai mai vissuto. Ciò che mi porta agli anni ’20 non sono esperienze vissute, ma simboli culturali, facilmente importabili in questo tempo. Ad esempio, posso ascoltare tutta la musica speakeasy su Spotify – o persino il successo di Justin Bieber Love Yourself reinventato dal postmoderno Jukebox di Scott Bradlee come se fosse un numero jazz di New Orleans degli anni ’20; posso leggere una pagina del Time, fondato nel 1923 e spruzzarmi un po’ di Chanel no. 5, nato nel 1921. Posso godere dei magnifici film Disney, il prodotto di un sogno diventato impero nel 1923. Tutto questo grazie alla tecnologia, educazione e opportunità del ventunesimo secolo.
Pensare al concetto del passare di un secolo, che è così enorme e lungo che ho difficoltà a concepirlo, mi spinge a riflettere sull’esile durata della vita e il labile senso del tempo umano. Mi chiedo cosa mai faranno le persone della nostra epoca a 100 anni di distanza.
Nel 2120, ci saranno retrospettive artistiche sui meme? Le sfide di ballo di TikTok si uniranno ai ranghi del Charleston? Le persone collezioneranno AirPods vintage come facciamo con i grammofoni? Si pubblicheranno le chat di Whatsapp come nuovi epistolari? O saremo solo ricordati per le nostre barriere ed intolleranza, per l’incapacità di reagire, o per la nostra indifferenza di fronte a una crescente crisi climatica?
La scrittrice Gertrude Stein si riferiva a Hemingway e ai suoi pari come alla “generazione perduta”, lasciata senza meta, sconsiderata e disillusa dalla guerra. Spero davvero tanto che non saremo ricordati come la generazione che ha perso il futuro, che non ha nemmeno provato a riprenderselo. Le possibilità le abbiamo tutte, del resto.
Viviamo ancora una volta nei ruggenti anni Venti e mi piacerebbe vivere questi tempi con il meglio del passato, cercando di riservare altrettanto per il futuro, proteggendomi dal peggio. Altrimenti un giorno guarderò indietro e penserò, oh, 2020, we could have had such a damned good time together!
Nata a Cosenza nel 1994, vive da sette anni a Roma. Laureata in Filologia Moderna, attualmente tenta di rendere produttiva la sua laurea seguendo un Master e facendo tutti i lavori possibili.
Ama la musica, viaggiare, la vita la coinvolge totalmente e vorrebbe scoprire il mondo.
La sua passione più longeva è sicuramente la lettura, il primo libro che ha letto è “Giovanna nel Medioevo” e ha pianto senza ritegno dopo aver terminato “La piccola Principessa”.
Incapace e negata per ogni tipo di sport (ma è fiera di aver praticato basket per una settimana), ama correre con le cuffie nelle orecchie e camminare per tutta Roma.
Il suo gruppo preferito sono gli Oasis, e mentre spera che tornino insieme, immagina sempre come sarebbe la sua vita se la smettesse di sognare ad occhi aperti.