Siamo tutti un po’ Victor Frankenstein

Ginevra, 1816.

Mary Shelley ed il marito Percy Bysshe Shelley, la sorellastra di Mary, Claire Clairmont, l’amante di Claire, Lord Byron e John William Polidori escogitano un passatempo per le placide sere d’estate: ciascuno di loro dovrà scrivere un racconto dell’orrore.

È grazie a quell’espediente che nacque uno dei più famosi romanzi gotici dell’800, l’antesignano di un filone ancora oggi molto apprezzato. La versione finale del romanzo fu pubblicata due anni dopo, nel 1818 e precisamente l’11 Marzo.

Mary Shelley amava affermare che Frankenstein fosse la storia che aveva immaginato per la creatura di un suo terribile incubo.

Si dice che ad ispirarla fu un verso del Paradiso Perduto di John Milton che recita:

Ti ho chiesto io, creatore, dalla creta / Di farmi uomo? Ti ho chiesto io / Di trarmi dal buio?”.

Per chi non conosce il romanzo, la storia narra le vicende di Victor Frankenstein, giovane ossessionato dalla morte che, dopo anni di studi, dà vita ad una creatura mostruosa, assemblando parti di cadaveri.

E’ emblematica la scena in cui il dottor Victor Frankenstein rianima la creatura grazie all’elettricità di un fulmine in una notte di tempesta, urlando l’iconica frase: “Si può fare!”.

La creatura viene erroneamente chiamata da molti “il mostro Frankenstein” dal nome del suo creatore che dà il titolo all’opera, ma in realtà nel romanzo non le verrà mai dato un nome.

Nei secoli è stato scritto tanto su come l’opera sia una metafora della lotta tra la scienza e la morale cattolica: un’espressione dell’idea di un dio assimilabile a Zeus che si scaglia contro il titano Prometeo, protettore dell’umanità, che ha osato sfidarlo.

Scienza contro Religione, Umano contro Divino sono temi molto presenti nel romanzo e di indiscutibile importanza, ma nel mio piccolo quando lo lessi, colsi anche un altro tema: la paura del diverso.

Mi colpirono come un treno le parole di disgusto che Victor espresse sin dal primissimo momento di vita della creatura che, per sei anni, aveva monopolizzato le sue attenzioni.

“Con quali parole posso descrivere le mie emozioni alla vista di quella catastrofe, con quali parole posso descrivere l’essere miserabile che, attraverso sforzi e cure infinite, ero riuscito a creare? […] la bellezza del sogno era svanita, lasciando spazio ad un sentimento di umano orrore misto a disgusto che dilagò subito nel mio cuore […] scorsi quella miserabile creatura, il mostro che avevo creato”.

L’incredulità, il disgusto e l’orrore di quel momento lo portarono a fuggire, lasciando la creatura sola, inerme e totalmente ignara del mondo nel quale, con violenza, era appena rientrata.

Victor ha avuto paura di interfacciarsi con qualcosa al di là della sua comprensione e ha preferito nutrire la paura e la repulsione avvertite, in di quel primo grave istante, con l’abbandono.

Ha chiuso la porta alla creatura, l’ha chiamata mostro e, abbandonandola, l’ha costretta a diventarlo. In sociologia della devianza lo chiamerebbero etichettamento.

Se ti chiamano mostro, criminale, animale, pazzo, deviato e ti trattano come se tu lo fossi abbandonandoti, confinandoti, emarginandoti, precludendoti ogni possibilità di vivere una vita degna di questo nome, non potrai fare a meno di diventarlo.

Il risveglio avviene nel capitolo 5 e io, nei restanti capitoli in cui la creatura uccide tutte le persone più care al suo creatore, non ho potuto far a meno di pensare che tutta quella rabbia, quella morte, derivassero da quel primo fatidico e terribile istante di abbandono.

Se Victor gli avesse teso la mano, se avesse praticato un atto di umanità, allora la creatura avrebbe imparato ad amare piuttosto che ad odiare.

L’epilogo del romanzo è, ovviamente, dei più tragici.

Victor percorre milioni di miglia per allontanarsi dalla sua creatura ed arriva tra i ghiacci del Polo Nord in preda a una febbre che lo consuma fin da quando ha assistito al rianimarsi di ciò che aveva creato.

Muore prima che la creatura riesca a raggiungerlo, negando al lettore e ai travagliati personaggi, il supremo momento di riscatto e perdono che ci si aspetta dopo tanto orrore.

Non ci sono vincitori. Solo vinti.

Victor è morto lontano dai pochi affetti che gli erano rimasti, in mezzo ai ghiacci ed in preda alla febbre; la creatura, dopo aver desiderato così tanto la sofferenza del suo creatore, compiuta la sua suprema vendetta si ritrova ancora più solo, isolato e rifiutato da tutti.

Siamo quindi un po’ tutti Victor Frankenstein quando dal nostro divano, seduti comodi dopo un buon pasto, guardiamo la tv e pensiamo che dobbiamo chiudere i porti, innalzare i buri, bloccare gli interscambi.

Siamo un po’ tutti Victor Frankenstein quando, invece di un gesto umano nei confronti di ciò che non conosciamo e non ci somiglia, decidiamo di tenerlo lontano, di lasciarlo a sé stesso.

Il nostro finale, però, può ancora essere felice.

Il direttore generale della World Health Organization, Tedros Adhanom Ghebreyesus ha detto, in questi estremamente delicati giorni di quarantena volontaria: “Lasciate che la speranza sia l’antidoto alla paura. Lasciare che la solidarietà sia l’antidoto al biasimo. Lasciate che la nostra umanità condivisa sia l’antidoto ad una minaccia condivisa”.

Speranza, Solidarietà, Umanità. Costruiamo per noi e per gli altri un finale differente, risparmiandoci dolore ed isolamento.

Restiamo Umani.

Rosamaria Trunzo
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Assistente sociale, sognatrice incallita, idealista per nascita ed irriverente per vocazione. Ama leggere, guardare le maratone di Mentana su la7, i telefilm, il cinema, le arance amare e la politica. Dai posteri verrà ricordata per l'autoironia e la propensione alle battute a doppio senso.